Coltivarsi la Cannabis non è reato: lo dice la legge
Il caso dell’insegnante trovata con tre piante e 750 grammi di Cannabis segna una svolta ed è destinato a fare scuola nella giurisprudenza italiana. Soft Secrets in anteprima ha raggiunto il difensore Marco Baroncini che ha spiegato: “Per la prima volta nel Paese è stata riconosciuta la coltivazione per uso personale. Inutile parlare di liberalizzazione, la legge già lo permette. L’unico reato è la cessione a terzi pur rimanendo l’illecito amministrativo"
Detenere e coltivare Cannabis non costituisce alcun tipo di reato a patto che non si ceda la sostanza a terzi. La sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Milano nei confronti di una donna trovata in possesso di 750 grammi di Cannabis e tre piante di notevoli dimensioni in fase di fioritura è destinata a creare un enorme dibattito in Italia e probabilmente a fare scuola nella giurisprudenza del Paese.
Per la prima volta i giudici di merito hanno riconosciuto anche la coltivazione per uso personale ma c’è di più: nonostante la donna avesse anche una prescrizione medica per Cannabis non è stato necessario ricorrere all’uso terapeutico per vincere la causa. Il difensore infatti ha posto l’accento sul fatto che non ci fossero prove a sostegno che la donna cedesse la Cannabis a terzi, senza queste prove il reato non sussiste e ogni cittadino italiano è libero di coltivare e detenere Cannabis a patto che si rispetti il principio di non cessione a terzi. Per cessione a terzi si intende non solo la vendita ma anche la semplice condivisione a titolo amichevole e gratuito con altre persone.
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«Ogni cittadino è libero di coltivare per sé la propria Cannabis - spiega il difensore Marco Baroncini, professore di procedura penale all’istituto di criminologia di Vibo Valentia - al di là dell’uso terapeutico o medico, coltivare per sé è sempre consentito. Ciò che è vietato è la cessione a terzi ma senza evidenti prove di colpevolezza (come ad esempio bilancini di precisione, dosi già confezionate, ingenti somme in contanti ecc.) il reato non sussiste. Questo è quanto dice letteralmente la legge e, nel caso della mia assistita, per la prima volta è emerso all’interno di un’aula di giustizia per la condotta di coltivazione, non ricordo altre sentenze simili. Quindi ogni dibattito sulla liberalizzazione è totalmente inutile perché in Italia è già prevista, se del caso si dovrà parlare di commercializzazione che attualmente non è assolutamente permessa».
Fino ad oggi l’uso personale era una discriminante per il possesso di Cannabis ma mai la norma era stata applicata per la coltivazione, per giunta supportata dal rinvenimento di un ingente quantitativo di Cannabis, ben 750 grammi. «In primo grado il giudice aveva riconosciuto alla mia assistita la finalità dell’uso personale - prosegue il professor Baroncini - ma aveva comunque pronunciato una condanna di 16 mesi e 800 euro di multa per la coltivazione, ritenendo che andava sempre punita. Dopo circa dieci giorni dalla sentenza di primo grado però è arrivato l’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che ha evidenziato come la coltivazione a uso esclusivamente personale non sia reato. Questo ha permesso di ribaltare la sentenza in secondo grado fino ad arrivare ad una piena assoluzione perché il fatto non sussiste».
Da un punto di vista giuridico quindi la sentenza è un esempio dell’applicazione della legge, l’evidenza che la semplice condotta non può essere reato senza che l’accusa fornisca le prove della colpevolezza. Sotto questo aspetto non importa il quantitativo di sostanza, la coltivazione o il possesso, l’unica cosa che va dimostrata per sostenere un’accusa è che ci sia la destinazione a terzi. «Posso affermare con soddisfazione che la giustizia in questo caso ha funzionato fino in fondo in maniera perfetta - continua il difensore - è stato fatto prevalere il principio di presunzione di non colpevolezza e inoltre è stato mantenuto l’assoluto anonimato della mia assistita che non ha avuto alcun tipo di ripercussione sociale o lavorativa. Un riconoscimento in questo senso a chi ha seguito e tutto il procedimento ha rispettato il principio del giusto processo anche per le celeri tempistiche con cui è stato affrontato».
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Il processo quindi, in un certo senso, è stato il trionfo della giustizia liberalista: «Moralmente - spiega ancora il professor Baroncini - sono assolutamente contrario all’uso di qualsiasi sostanza, anche della Cannabis. Ma questo è un giudizio etico e personale. Come uomo di legge invece sono fedele a quanto diceva il grande filosofo John Stuart Mill nel celebre Saggio sulla libertà, ovvero massima libertà e minimo intervento dello Stato nei divieti. Purtroppo ce lo dimentichiamo troppo spesso ma la nostra giurisprudenza e il nostro ordinamento sono figli di Cesare Beccaria, probabilmente il massimo esponente dell’illuminismo italiano e autore del Dei delitti e delle pene, il testo più influente nella storia del diritto penale. Beccaria diceva “Non lasciamo le interpretazioni ai giudici, la legge deve essere del popolo”. Ecco io mi rivedo pienamente in questo principio fondatore e aggiungo che non è il cittadino che deve provare la propria innocenza ma è l’accusa che deve fornire prove di colpevolezza».
La sentenza della Corte d’Appello di Milano ha quindi messo nero su bianco che la coltivazione per uso personale senza cessione a terzi non costituisce reato e quindi è permessa a tutti i cittadini italiani. La portata di questa sentenza potrebbe essere storica ed impugnata in primis dai tanti malati che usano la Cannabis per fini terapeutici. Da oggi non dovranno più dimostrare di “essere malati” e quindi di essere detentori di diritti speciali, sarà sufficiente avere l’accortezza di evitare ogni tipo di cessione e condivisione, anche a titolo gratuito, questo permetterà loro di scavalcare i divieti e gli ostacoli e di produrre in piena autonomia la medicina necessaria alla loro vita dignitosa. Ma lo stesso può valere anche per il coltivatore ricreativo che non dovrà più dimostrare la propria innocenza se colto in possesso di piante o di sostanza. «Come dico sempre ai miei studenti - conclude il professor Baroncini - nel codice di procedura penale non esiste la parola innocenza, o si è colpevoli o non si è colpevoli e le prove di colpevolezza vanno fornite dall’accusa, non è il cittadino a dover dimostrare la propria innocenza. Senza queste prove, ricordando sempre il massimo esempio dei grandi pensatori del passato, l’uomo e il cittadino sono liberi di agire in modo autonomi nel rispetto delle leggi esistenti e nel pieno esercizio dei propri diritti inalienabili».