Non è cannabis, ma ha i cannabinoidi!
Si chiama "Woolly Umbrella" e, pur non essendo correlata alla cannabis è in grado di creare un gran numero di cannabinoidi. Originaria del Sudafrica ha fiori vellutati di colore giallo senape, disposti a forma di ombrello
Dal Sudafrica arriva una nuova pianta in grado di produrre una grande quantità di cannabinoidi. Questi sono i composti responsabili degli effetti della cannabis e sono già utilizzati nella medicina generica per trattare numerosi disturbi, fra cui il dolore, la nausea e alcune forme di epilessia.
Nota come "Woolly Umbrella", ha un’estetica sorprendente di fiori vellutati di colore giallo senape, disposti in una chioma a ombrello. La pianta appartiene a una famiglia completamente diversa dalla cannabis. Fra i suoi parenti figurano girasoli, margherite e lattuga.
L’"Helichrysum umbraculigerum", per usare il suo nome nella classificazione formale, ha una caratteristica fragranza di curry. Fonti storiche indicano che centinaia di anni fa veniva utilizzata come intossicante in rituali popolari, il che fa pensare che potrebbe contenere sostanze chimiche che influenzano il cervello. Uno studio condotto decenni fa ha concluso che la pianta potrebbe effettivamente contenere cannabinoidi.
Tuttavia, fino ad oggi, i ricercatori non sono mai stati in grado d’individuare la struttura di questi composti. Dopo averne sequenziato il genoma e analizzato le sue componenti chimiche, i ricercatori del Weizmann Institute of Science hanno identificato oltre 40 cannabinoidi nelle sue foglie.
Di conseguenza, i ricercatori hanno definito la pianta "una fonte vegetale perenne, a crescita rapida e commercialmente valida, di cannabinoidi bioattivi". Tuttavia, il rovescio della medaglia è che i composti trovati nella pianta Woolly Umbrella dovrebbero essere estratti mediante tecniche di coltivazione intensiva, il che comporterebbe elevati costi economici e ambientali. La pianta non sembra produrre THC o CBD, ma crea grandi quantità di CBG.
Si tratta di un cannabinoide che ha mostrato un grande potenziale come possibile rimedio per i sintomi di disturbi neurologici, tumore al colon e altre condizioni mediche. Per molti pazienti, gli effetti psicoattivi del THC sono indesiderati, il che significa che attualmente i cannabinoidi adeguati dal punto di vista medico devono essere isolati dagli estratti di cannabis. Questo rende vantaggioso il fatto che la Woolly Umbrella non produca THC, in quanto potrebbe consentire un accesso più semplice al CBG e ad altri cannabinoidi non psicoattivi.
La forma acida del CBG è presente in concentrazione moderatamente elevata nella Woolly Umbrella. Il CBG è un precursore fondamentale per la creazione di tutti i cannabinoidi noti della cannabis. Questo rafforza la nozione secondo cui la pianta Woolly Umbrella potrebbe diventare una preziosa fonte di cannabinoidi per uso medico a base vegetale.
"Abbiamo trovato una nuova importante fonte di cannabinoidi e sviluppato strumenti per una produzione sostenuta, il che può contribuire a esplorare il loro enorme potenziale terapeutico" ha dichiarato l’autrice dello studio, la Dottoressa Paula Berman. Sei cannabinoidi individuati nella Woolly Umbrella si trovano anche nella cannabis, mentre gli altri sono completamente nuovi. Il prossimo passo logico sarebbe, ovviamente, quello di definire gli effetti degli oltre 30 cannabinoidi unici che sono stati rinvenuti nella pianta per capire quali usi medicinali potrebbero avere. Gli scienziati non hanno ancora compreso appieno perché le piante producano cannabinoidi. Tuttavia, le evidenze indicano come potrebbero contribuire a scoraggiare i predatori e avere altre proprietà protettive, come quella di agire come crema solare naturale e proteggere le piante dai dannosi raggi UV.
"Il fatto che nel corso dell’evoluzione due piante geneticamente non correlate abbiano sviluppato in modo indipendente la capacità di produrre cannabinoidi suggerisce come questi composti svolgano importanti funzioni ecologiche. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per determinare queste funzioni" ha affermato l’autore dello studio, il Professor Asaph Aharoni.