Coltivazione di marijuana ad uso personale: il buon senso delle Sezioni unite
La questione della coltivazione di marijuana ad uso esclusivamente personale ha vissuto decenni di battaglie giudiziarie sfociate in ben quattro sentenze della Corte costituzionale – nel 1994, 1995, 1996 e nel 2016 – e due decisioni della Suprema Corte a Sezioni unite (una del 2008 e questa del 2020)
di Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti (tutelalegalestupefacenti.it)
Un così ricco paniere decisionale, già di per sé, dimostra che qualcosa di sbagliato è accaduto in trent’anni di vita della Legge sugli stupefacenti (d.P.R. n. 309/1990), dal momento che la norma sotto i riflettori, l’art. 75, relativa alle sanzioni amministrative quando si esclude lo spaccio, non è stata mai modificata dal legislatore, che pure in questi decenni non ha mancato di fare del suo per complicare la situazione.
La causa di un così travagliato iter è da ricercarsi nel pregiudizio ideologico-politico che sempre ha accompagnato il dibattito sulle droghe leggere, entrato purtroppo anche nel dibattito “giuridico” e destinato a perdurare dopo la netta chiusura che condusse le Sezioni unite nel 2008 a punire “sempre e comunque” qualunque coltivazione di sostanza stupefacente.
Quella decisione, che pure muoveva dal corretto principio secondo cui: la coltivazione ha «l’attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, che ne agevolano indirettamente la diffusione, e per tale motivo (è più) insidiosa», rispetto alla semplice detenzione, fu vittima di quel pregiudizio perché non intravide la necessità di porre un temperamento di buon senso in quelle ipotesi di “manifesta irragionevolezza” della sanzione penale.
Punire come uno spacciatore chi coltivi una piantina di cannabis sul proprio balcone trasuda illogicità ed irrazionalità giuridica, per cui solo l’ideologia – il pregiudizio appunto – può considerarsi l’unica causa di quel provvedimento che, purtroppo, condizionò tutta la giurisprudenza successiva. E se si pensa che quella sentenza era chiamata a proporre una “ragionevole” interpretazione del concetto di coltivazione (così come richiesto dalla Corte costituzionale già nel 1995), distinguendo una coltivazione da punire da una coltivazione non offensiva, si comprende il danno che arrecò in tutti quei giudizi che sono terminati con la condanna (o con il patteggiamento) di coltivatori lontani anni luce dal mondo dello spaccio.
Dopo le Sezioni unite del 2008 la vicenda sembrava chiusa.
Quale giudice di Tribunale avrebbe deciso in contrario avviso a quella sentenza e quale avvocato, dinanzi alla prospettiva di una sicura condanna e di uno sconto di pena, non avrebbe preferito un facile patteggiamento?
Eppure non tutti gli avvocati – grazie alla volontà di lottare dei loro assistiti – hanno smesso di credere ad un ripensamento, come i sottoscritti che, almeno dal 2012, hanno ripetutamente sviscerato il tema dell’offensività in concreto del reato di coltivazione ad uso personale, chiedendo finanche la rimessione della questione all’attenzione della Corte costituzionale.
Il piano riuscì nel 2015 quando la Corte di appello di Brescia si mostrò sensibile ad un ripensamento della materia anche se, l’anno successivo, la sentenza della Corte costituzionale si limitò a confermare l’indirizzo precedente. Eppure, come pure scrivemmo all’epoca degli eventi, non tutti i mali vengono per nuocere, dal momento che il seme del ripensamento era stato gettato e, soprattutto, era stato illuminato dall’attenzione mediatica: proprio in quegli anni compaiono le prime pronunce della Cassazione che, timidamente, assolvono per coltivazioni che, pur avendo principio attivo superiore alla soglia drogante, si dimostrano tuttavia inoffensive perché destinate ad un uso esclusivamente personale.
Inizia a far breccia l’idea che una condotta per essere punita deve ledere o mettere in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice: principio entrato nella scienza penalistica da molto tempo, eppure ancora lasciato in disparte (soltanto) per il reato di coltivazione di cannabis. Poiché la norma penale in questione mira a tutelare l’ordine pubblico, la sicurezza e la salute collettiva, quale pericolo potrebbe mai avere la coltivazione di poche piante di marijuana che, per modalità della condotta e circostanze dell’azione, appaiono destinate ad un uso esclusivamente personale?
Le odierne Sezioni unite, finalmente (è il proprio il caso di dire) poggiano la loro decisione su tale profilo, affermando il seguente principio di diritto: «Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore».
Per comprendere se la condotta coltivativa sia o meno penalmente rilevante occorre, quindi, non appiattirsi al semplice dato fenomenico della possibilità di ricavare sostanza drogante, ma vedere se, da tutte le circostanze del caso, sia possibile predicare un “oggettivo” uso personale.
Evidenziamo la parola “oggettivo”, dal momento che la sentenza, in un altro importante passaggio della motivazione, precisa che «la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l’intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato […]»
Come a dire che non basta la dichiarazione dell’imputato che dica che coltivava per il proprio personale consumo, ma occorre che, per le riscontrabili modalità della condotta, sia ragionevole pensare che non vi sia il pericolo che la sostanza ricavabile possa essere, anche in parte, ceduta a terzi.
Quali sono queste modalità della condotta?
La Cassazione sul punto individua quelle più importanti, dalle quali non può prescindersi: dimensioni della coltivazione (ossia il numero delle piante), mancanza di indici di spaccio. Non potrà essere predicato l’uso personale, secondo quanto si evince dalla sentenza in commento, se la dimensione della coltivazione non consente di immaginare un uso esclusivamente personale.
È lasciato all’apprezzamento del giudice di merito valutare, caso per caso, quale possa essere questo numero che, unitamente a tutte le altre circostanze dell’azione, faccia ragionevolmente rientrare il pericolo di una cessione a terzi.
L’inestricabile problema sarà, come è facile intuire, stabilire questo numero che, afferendo a valutazioni di merito, sarà lasciato all’esclusivo giudizio del Tribunale, non potendo la Cassazione sostituirsi in ciò al giudice dei gradi precedenti.
L’auspicio, dunque, è sempre lo stesso che da anni anima la classe forense: una riforma del Testo unico stupefacenti per una regolamentazione dell’uso delle droghe leggere, visti i nefasti effetti di una politica criminale proibizionista.
Certo è che la pronuncia delle Sezioni unite costituisce un passo importante, quasi obbligato per mantenere il diritto penale entro i binari della nostra Costituzione ispirata ai principi di stretta necessità e ragionevolezza della pena.
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