Ḥasan-i Ṣabbāḥ il Robin Hood dell’hashish

Marco Ribechi
07 Aug 2021

Un castello nel cuore della Persia dove rapire le menti degli uomini attraverso il consumo di hashish. La storia del condottiero Ḥasan-i Ṣabbāḥ si perde tra realtà e leggenda ma sembra che proprio grazie ai suoi uomini il derivato della Cannabis sia arrivato per la prima volta in Europa, diventando poi celebre per le sue proprietà allucinogene


Ḥasan-i Ṣabbāḥ, vissuto nell’attuale Iran tra il X e l’XI secolo, nacque nella città di Qom, oggi ultraconservatrice e sede di importanti scuole coraniche. A circa 35 anni, in seguito a una grave malattia, si convertì alla religione ismaelita e iniziò un’azione di diffusione del suo credo attraverso metodi poco convenzionali.

Stabilì infatti il suo quartier generale nel castello di Alamūt, di cui oggi restano solo delle rovine sulle stupende montagne nei pressi di Qazvin, e iniziò a reclutare soldati e adepti che gli giuravano eterna fedeltà.

Per ottenere la lealtà dei suoi soldati Ḥasan-i Ṣabbāḥ diceva loro che era in grado di comandare sugli angeli e sui demoni e, attraverso i suoi poteri, avrebbe potuto premiarli con una gioia eterna. Dopo averli ammaliati con racconti appassionanti li drogava a loro insaputa con del potentissimo hashish per poi condurli in un magnifico giardino popolato di donne meravigliose, piante rigogliose e bevande di ogni tipo. Sotto l’effetto del potente allucinogeno, allora ancora in parte sconosciuto, il prescelto poteva soddisfare ogni suo desiderio, convinto che quello fosse realmente il paradiso e che Ḥasan-i Ṣabbāḥ possedesse il potere di accedervi ogni volta che lo desiderasse.

In questo modo, attraverso i piaceri dell’hashish, Ḥasan-i Ṣabbāḥ riuscì in pochi anni a mettere in piedi un manipolo di uomini che lo veneravano come se fosse un dio, disposti a tutto pur di onorare il padrone del paradiso. Dal nome del loro capo, o forse dal fatto che usassero l’hashish nei loro incontri mistici, la setta prese il nome di “assassini” (Hašīšiyyūn) e iniziò ad operare delle scorribande per sovvertire l’ordine politico e di potere vigente all’epoca. La strategia era quella degli omicidi politici e il primo grande colpo fu l’uccisione del vizir Nizām al-Mulk.

Sabbah iniziò a scagliare i suoi uomini contro politici e grandi generali, senza però riversare la sua violenza contro i normali sudditi. Per questo la sua figura è ricordata come quella di un sovversivo piuttosto che come quella di un sanguinario condottiero. Gli Assassini venivano addestrati come dei freddi calcolatori, esperti di travestimenti ed erano capaci camuffarsi tra le fila nemiche pur di portare a termine la missione. Spesso erano colti e istruiti poiché non basavano le loro azioni solo sulla forza bruta ma anche sulla conoscenza dell'avversario, della sua lingua, delle sue abitudini e della sua cultura.

Altre due caratteristiche di questo gruppo di guerriglieri erano l'assoluta spettacolarità delle loro azioni e la forte capacità di persuasione. Da un lato, quando decidevano di agire, preferivano farlo in luoghi affollati dove tutti potessero vederli e riconoscerli. Questo contribuì a creare un alone leggendario rendendoli più famosi di ogni altro gruppo. Dall'altro gli Assassini cercavano sempre di prendere il proprio nemico e persuaderlo, attraendoli per poi arruolarli nelle proprie fila. Era in questo frangente che veniva offerto loro dell’hashish per la prima volta allo scopo di conquistarli attraverso dolci allucinazioni di mondi paradisiaci.

La fortezza di Alamūt viene descritta anche da Marco Polo ne “Il Milione” che nel suo viaggio verso la Cina ha attraversato l’odierno Iran. Il castello viene ritratto come un palazzo magnifico con splendidi giardini popolati da affascinanti fanciulle. Racconta che dalle fontane zampillasse vino, latte, miele e acqua così come le acque dei fiumi del paradiso islamico. In realtà però sembra che Marco Polo non possa essere stato testimone diretto della residenza degli Assassini perché questa fu distrutta solo due anni dopo la sua nascita, nel 1256.

Un altro libro che riporta le storie di Ḥasan-i Ṣabbāḥ e dei suoi seguaci è “Alamut” di Vladimir Bartol, pubblicato nel 1938 in lingua slovena. La massima del romanzo è “Niente è reale, ogni cosa è permessa” come a sottolineare gli stati allucinatori dei guerriglieri dell’hashish e la rivelazione di un’altra realtà.

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Marco Ribechi