Cannabis terapeutica: dove saremo tra dieci anni?
L’utilizzo medico e terapeutico della cannabis affonda le radici nella storia dell’umanità.
Ha infatti una lunga storia legata alla medicina tradizionale cinese dove veniva prescritta per il trattamento di diversi sintomi ed era utilizzata persino dall’imperatore Shen Nung, appassionato di farmacologia, che nel 2737 a.C. fu il primo ad includere i benefici legati all’uso della cannabis in un trattato di medicina.
Anche in India la pianta conobbe un ampio impiego in ambito terapeutico e tra il II e il I secolo a.C. le ripetute migrazioni delle tribù nomadi dell’Asia Centrale ne favorirono la diffusione nel bacino del Mediterraneo, in Europa e in Medio Oriente.
Fino alla prima parte del Medio-Evo la pianta continuò ad essere usata a scopo mistico e terapeutico, ma la “civilizzazione” delle culture pagane, ne condizionò la progressiva scomparsa dal continente europeo.
Dobbiamo aspettare l’inizio dell’Ottocento per vedere la nascita di un vero interesse scientifico con il dottor W. B. O’Shaughnessy che sistematizzò le conoscenze sulle proprietà medicinali di questa pianta. È il 1839 quando descrive usi e benefici della cannabis appresi in India, supportati da una serie di esperimenti in malattie quali rabbia, reumatismi, epilessia, tetano, arrivando a definire la cannabis, come «il perfetto rimedio anticonvulsivo».
La storia della cannabis come farmaco si chiuse però bruscamente, almeno in America e in Europa, appena prima della seconda guerra mondiale e bisogna aspettare gli anni ’70 per rivedere i primi cenni di una rivalutazione. Il libro del dottor Lester Grinspoon “Marijuana reconsidered” del 1971 è il primo testo “moderno” a riesaminare in modo critico e senza pregiudizi la letteratura scientifica antica e recente.
Oggi la cannabis in molti Paesi è tornata a ricevere attenzione come trattamento per molte patologie e i moderni metodi di indagine scientifica hanno permesso di convalidare molti degli effetti terapeutici scoperti in passato, trovandone di nuovi.
Dal 1970, quando vennero scoperti per la prima volta i cannabinoidi e il loro potenziale terapeutico, l’interesse degli scienziati per lo studio della cannabis è aumentato , così come la nostra comprensione della pianta, dei suoi costituenti attivi, dei loro meccanismi d’azione e dei loro effetti sia sul consumatore che sulla società. Ad oggi infatti, molte sono le pubblicazioni circa il rilievo scientifico della cannabis nella terapia del dolore, ma anche di diverse altre patologie. Secondo un’analisi del sito federale PubMed.gov condotta dall’associazione Normi, che negli Stati Uniti si batte per la legalizzazione della cannabis, nel 2022 sono stati pubblicati in tutto il mondo più di 4.300 articoli di ricerca sulla cannabis, superando il totale dell’anno precedente con poco più di 4.200 studi pubblicati.
Un lungo percorso e un grande lavoro che dimostra l’interesse scientifico crescente nei confronti di questa pianta e delle sue molecole e che conferma la cannabis come un farmaco capace di intervenire su aspetti che vanno oltre la patologia e i sintomi dei pazienti, per migliorare la qualità della vita negli aspetti correlati alla salute di chi inizia ad utilizzarla.
Nei venti anni successivi al 1964, anno in cui venne identificato e sintetizzato il tetraidrocannabinolo (THC), la molecola psicoattiva della Cannabis, da parte degli scienziati Mechoulam, scomparso da poche settimane, e il collega Yoel Gaoni, gli scienziati impararono moltissimo sulla farmacologia, biochimica ed effetti clinici della Cannabis. Ma nessuno ancora sapeva davvero come funzionasse questa pianta, che cosa realmente facesse, a livello molecolare, sul cervello per alterare la coscienza, stimolare l’appetito, diminuire la nausea, sedare crisi (epilettiche), alleviare il dolore, bloccare spasmi muscolari o migliorare l’umore.
È grazie al continuo studio della pianta che si arrivò alla risposta quando si scoprì quello che venne chiamato, proprio in onore di essa, sistema endocannabinoide: una vasta rete di recettori cellulari che agisce sulla regolazione di una grande varietà di processi sia fisiologici che cognitivi, come l’appetito, la sensazione di dolore, il piacere, l’umore il sonno.
I cannabinoidi, sono le molecole che trasmettono segnali e informazioni alle altre cellule presenti nel corpo umano, sono quindi dei “messaggeri” che agiscono nel nostro corpo. Gli esseri umani producono i propri cannabinoidi, ovvero gli endocannabinoidi, i quali agiscono sui recettori dei cannabinoidi o li stimolano. Questi composti agiscono in modo simile ai fitocannabinoidi (cannabinoidi della pianta) che a loro volta si legano a quegli stessi recettori.
Questa rivoluzionaria scoperta non solo riuscì ad identificare il funzionamento dei cannabinoidi, ma rivelò anche un sofisticato sistema fisiologico che aiuta il corpo a mantenere l’omeostasi. Da quella scoperta straordinaria le porte furono aperte agli scienziati per testare i recettori con varie sostanze, provandole come chiavi in una serratura. Alcune chiavi, dette in farmacologia molecole “agoniste”, riuscivano ad aprire il lucchetto; altre, gli “antagonisti”, a bloccarlo.
Tuttavia , nonostante oggi la ricerca vada avanti e stia ottenendo buone risposte, l’uso della cannabis terapeutica rimane ancora un dibattito aperto a livello mondiale. Questo accade perché, nel momento in cui gli studi scientifici sulla cannabis progrediscono significativamente, non si riesce a porre fine, di pari passo, alle numerose opinioni politiche che invece ne impediscono il progresso, rallentando drasticamente le possibili scoperte.
Se volessimo immaginare cosa succederà tra dieci anni, quindi, è molto difficile dirlo, ma certamente il grande interesse della ricerca, che nella storia ha sempre accompagnato questa pianta, continuerà e arriverà a maggiori certezze. D’altronde come non si può arrestare il progresso tecnologico non si può fermare neanche quello in medicina, soprattutto di fronte alla consapevolezza di un numero crescente di pazienti che sceglie questo tipo di cura e chiede di poter accedere più facilmente a farmaci con cannabinoidi.
Una maggiore diffusione delle cure con cannabis aiuterebbe la ricerca a raccogliere dati fondamentali direttamente dagli utenti interessati. Indubbiamente per fare questo ci sarebbe bisogno di grandi finanazimenti a lungo termine che diano una maggiore libertà alla comunità scientifica di studiare tutti i dati raccolti e progredire.
Negli Stati Uniti una piccola rivoluzione in questo senso sta già avvenendo. Per la prima volta nella storia del Paese, infatti, una misura autonoma sull’uso della cannabis e sull’implementazione della ricerca scientifica è stata approvata dal Congresso. Il Medical Marijuana and Cannabidiol Research Expansion Act è la proposta firmata dal presidente Joe Biden che ha l’obiettivo ben chiaro di far avanzare e quindi approvare più rapidamente le domande relative alle ricerche scientifiche sul tema cannabis.
Il disegno di legge include inoltre alcune disposizioni per incoraggiare la Food and Drug Administration degli Stati Uniti a sostenere lo sviluppo di farmaci derivati dalla cannabis, fornendo così nuove terapie ai pazienti che ne fanno uso o che ne hanno bisogno.
Questa è una legge che semplificherebbe molto il processo di richiesta per l’approvazione degli studi scientifici relativi alla cannabis, che renderebbe più facile per i ricercatori comprendere i potenziali benefici medici della pianta facilitando anche la richiesta di grandi quantità di materia prima destinata ai loro studi.
Seppur a piccoli passi quindi, gli studi continuano e il futuro della ricerca, che speriamo sia sempre meno legato a scelte politiche, probabilmente sarà incentrato sul sistema endocannabinoide, considerato un perfetto bersaglio farmacologico, o sui cannabinoidi incapsulati in nanoparticelle per avere il massimo controllo sulla somministrazione dei farmaci.
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