Nasce la "Confindustria della cannabis light" ma la repressione continua
Due notizie uscite a poca distanza una dall'altra: una buona, l'altra davvero brutta. Alla fine di novembre si era festeggiata la costituzione di AICAL, la prima associazione di categoria nata per rappresentare produttori e rivenditori di cannabis light. Ai primi di dicembre, invece, le cronache locali e i magazine di settore riportavano i risultati dell'operazione "Affari in fumo", in cui 48 growshop della penisola sono stati perquisiti e posti sotto accusa perché vendevano cannabis "legale". Come si conclude il 2018 della cannabis light e come inizierà l'anno nuovo, lo vediamo di seguito.
Oltre 2.000 punti vendita e un fatturato annuo che sfiora i sette milioni di euro: con questi numeri il mercato della cannabis light italiana ha dimostrato di essere pronto a uscire dalla nicchia. A riprova che il cannabusiness nostrano fa sul serio, è da poco nata AICAL, l'Associazione Italiana Cannabis Light: una "Confindustria della cannabis light" dove produttori e rivenditori si sono uniti allo scopo di fare pressione sulle istituzioni ed ottenere soprattutto maggiori tutele legali. L'associazione, inaugurata lo scorso novembre, è presieduta da Riccardo Ricci, il 30enne forlivese cofondatore di Cbweed, una tra le prime aziende italiane a lanciarsi nel business della marijuana light, dopo che la famigerata "legge sulla canapa industriale" del 2016 aveva approvato la produzione di piante con una percentuale di THC non superiore allo 0,6%. Da allora, il mercato della marijuana legale nel bel paese è letteralmente esploso. Secondo quanto stimato dalla Coldiretti, gli ettari destinati alla coltivazione sono passati da poco meno di 400 nel 2013 a più di 4.000 nel 2018. Anche i piccoli coltivatori sono entrati nel mercato, destinando alla canapa parte dei loro terreni. E intanto sono spuntate da Nord a Sud migliaia di imprese che producono e vendono cannabis light: un florilegio di startup che si sono inventate addirittura la "cannabis delivery" a casa - proprio come si fa con la pizza o il sushi - e l'interessante sviluppo di un filone bio, senza pesticidi e concimi chimici. Le numerose stime economiche attestano che il giro d'affari del comparto ha un potenziale multimilionario ma, ahinoi, le istituzioni non la pensano allo stesso modo e la legge non è purtroppo ancora dalla parte della pianta. Ecco perché - anche se con 2 anni di ritardo sulla tabella di marcia - è diventato necessario "unire le forze" e creare un'associazione di categoria, proprio come gli altri distretti produttivi italiani. «Abbiamo ritenuto strategico e importante unire le nostre forze per poter raccontare la verità su un settore che conosciamo molto bene - ha dichiarato Ricci al sito web Linkiesta.it - ma siamo anche consapevoli che sia necessario apportare delle modifiche e delle migliorie a livello normativo. Da un lato per sostenere un settore e una filiera in assoluta espansione e dall'altro lato per tutelare al massimo i consumatori. Serve una piena regolamentazione del settore, per sfruttare le potenzialità di un mercato che in altri Paesi sta generando fatturati molto interessanti. Per questo proveremo quanto prima a proporre un confronto costruttivo alle istituzioni di riferimento». Istituzioni che pare vogliano perseverare nel tenersi alla larga da un mercato in parte stigmatizzato. Il percorso presenta infatti più di qualche ostacolo, e il rischio - più volte paventato su queste pagine - è che imprese e investimenti finiscano letteralmente "in fumo". Lo scorso aprile, il Consiglio Superiore della Sanità si era espresso sostenendo che la pericolosità della cannabis light "non può essere esclusa" e aveva raccomandato che venissero prese le misure adatte per scoraggiarne la vendita. Questo ha spianato la strada a pareri allarmistici sui cosiddetti "spinelli leggeri" e, sommato all'insediamento del nuovo governo, ha gettato nuovamente la cannabis sotto la cattiva luce dello "stupefacente". Il clima sociale nel belpaese non è certo dei migliori e il dibattito politico mima ogni giorno di più il tifo da stadio: c'è ben poco da stupirsi se un argomento polarizzante come quello della cannabis, finisce anch'esso nel calderone della facile polemica e dell'altrettanto facile soluzione repressiva. Soluzione che, puntuale ed immancabile come le dirette Facebook di Salvini, non ha tardato ad arrivare ed ha rovinato il Natale a diversi imprenditori del settore. I Militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto hanno eseguito nella prima settimana di dicembre un decreto di perquisizione e sequestro emesso dalla Procura della Repubblica nei confronti di numerosi esercizi che commercializzano derivati della canapa. Le operazioni, hanno complessivamente riguardato 48 aziende operanti a vario livello nella filiera della cannabis light e hanno varcato i confini territoriali della Puglia: a finire nelle indagini, infatti, anche aziende operanti in Campania, Calabria, Sicilia, Lazio e Lombardia. Al termine delle operazioni sono stati apposti i sigilli a 5 esercizi commerciali di Taranto, perché dedicati in forma esclusiva, o comunque prevalente, alla vendita di prodotti a base di cannabis e quindi perseguibili per spaccio di sostanze stupefacenti. Nel complesso, a seguito del provvedimento emesso il 5 dicembre, sono stati sottoposti a sequestro: 1 tonnellata e 200 chilogrammi di infiorescenze di canapa; 120 litri di bevande e liquidi contenenti derivati dalla cannabis; 2.600 prodotti alimentari (caramelle, lecca lecca, ecc.); 4.500 articoli e strumenti utilizzati per il confezionamento e l’ingestione/inalazione/combustione dell’infiorescenza di canapa (trinciatori e vaporizzatori); 4.000 locandine che pubblicizzavano i prodotti a base di cannabis. Questi i numeri che le forze dell'ordine hanno fornito trionfanti alla conferenza stampa per la presentazione di "Affari in fumo", l'originalissimo nome che è stato dato all'operazione di polizia. L'ordinanza di sequestro, a firma del Procuratore Capo di Taranto Carlo Maria Capristo, del Procuratore Aggiunto Maurizio Carbone e del Sostituto Procuratore Lucia Isceri, contestava infatti in primis l'immissione in commercio di un prodotto considerato stupefacente. Secondo l'interpretazione della Procura, infatti, la canapa è regolamentata soltanto in fase di coltivazione ma non può essere venduta al privato: la dicitura "ad uso tecnico" è stata considerata un escamotage per scavalcare la legge 242/2016. La Procura di Taranto, quindi, ha ribaltato la prassi giudiziaria che sembrava ormai consolidata e ha motivato la sua ipotesi di reato nel fatto che "la presenza del principio attivo (anche minimo N.d.A) per usi connessi all'inalazione ed ingerimento comporta una violazione della normativa sugli stupefacenti, in quanto nociva per la salute". La novità - se così la vogliamo definire - introdotta dall'operazione condotta dal Procuratore della Repubblica di Taranto è che alle aziende coinvolte viene contestata la violazione del famigerato articolo 73: una cosa che va ben al di là delle zone grigie della 242/16 e che purtroppo avevamo previsto potesse succedere. Secondo l'interpretazione dei magistrati di Taranto, quindi, qualsiasi prodotto a base di canapa che viene messo in commercio è illegale per definizione. Un precedente non da poco, che potrebbe davvero mettere a repentaglio gli investimenti ma soprattutto i posti di lavoro conquistati in questi ultimi anni. AICAL, come abbiamo visto sopra, chiede una regolamentazione piena del settore proprio per scongiurare queste persecuzioni giudiziarie e garantire la continuità lavorativa della filiera. Secondo l’associazione (e non solo) le norme contenute nella legge 242 del 2016 non sono sufficienti perché disciplinano solo parte del fenomeno. L'abbiamo ribadito anche noi più e più volte su queste pagine: la legge sulla canapa industriale, per sua stessa lapalissiana definizione, si occupa prettamente della coltivazione della canapa a fini industriali, e non tiene conto in minima parte dell'altra realtà del mercato, ovvero quella che domanda un prodotto di consumo. Ora, nel caso dei sequestri effettuati dalla procura tarantina si parla di percentuali oltre 0,5% di THC: quantitativi ridicoli, che non riuscirebbero ad alterare alcunché in quanti decidessero di assumerli. Eppure ci hanno comunque imbastito sopra un'operazione mastodontica, con diversi nuclei coinvolti e ripercussioni in sei regioni italiane diverse, almeno per il momento. Pare evidente che la legalizzazione non si possa fare coltivando e vendendo infiorescenze con valori superiori e non certificati. Si mettano l'anima in pace gli "antiproibizionisti" di questa opinione: sequestri, arresti e processi succedono, purtroppo, quando si crea l’illusione che un mercato non regolamentato possa fungere da "manovra sociale", senza prima dargli dei solidi fondamenti di diritto. La storia corre veloce e i tempi sono purtroppo cambiati di nuovo: il vento ottimista che soffiava dagli Stati Uniti ha lasciato il posto alla nebbia in cui ora brancolano gli operatori del settore. Un consiglio dunque, o una "modest proposal" per inaugurare quest'anno difficile che ci si prospetta davanti. Per fronteggiare questo ritorno al proibizionismo più becero, gli attori della filiera della canapa italiana e le diverse associazioni antiproibizioniste e di pazienti in cura con la cannabis, devono unirsi in un messaggio univoco per pretendere la modifica della legge sugli stupefacenti DPR 309/90. Bisogna esporsi, trattando temi come il riconoscimento del diritto all’autoproduzione come vera ed unica lotta alle mafie e superare l'ingiustizia sociale in cui tuttora viviamo, per poi iniziare a discutere sul modello di legalizzazione. Per farlo è necessario mettere dei paletti, fare chiarezza nel variegato mondo antiproibizionista italiano e definire una volta per tutte chi siamo e cosa vogliamo. Per farlo bisogna prendere delle posizioni, nette, senza ambiguità; bisogna veicolare lo stesso messaggio di rispetto ed amore per la pianta, unire le tante voci in una sola, incontrovertibile richiesta: depenalizzazione tout court! Come vediamo nulla in Italia è cambiato rispetto a 10 anni fa, quando ancora si malediva la legge Fini-Giovanardi. La "rivoluzione light" è stata una vittoria di Pirro, cui va ascritta la responsabilità di aver diviso ulteriormente l'opinione pubblica, creando una distinzione forzosa e ingannevole tra "cannabis buona" (quella light) e "cannabis cattiva" (quella con THC) - le recenti dichiarazioni di un colosso come Assocanapa sono solo l'ultimo esempio di questo scempio. Inutile dire che ci aspetta un altro anno in trincea: restiamo uniti. di Giovanna Dark