Legalizzazione della cannabis nel quadro della Convenzione sugli stupefacenti

Fabrizio Dentini
13 Jun 2022

Kenzi Riboulet-Zemouli è un ricercatore indipendente affiliato a FAAAT, acronimo di "Favoring Alternative Approaches to Addiction, Think & do tank". Specializzato in questioni di diritto internazionale e di geopolitica relative al consumo e alla regolamentazione delle droghe, alla fiera Indica Sativa di Bologna dello scorso aprile, ha presentato uno studio relativo alla famosa Convenzione internazionale sugli stupefacenti del 1961, la quale, contro ogni previsione, a suo avviso potrebbe contenere gli strumenti più adatti alla legalizzazione di cannabis.


SSIT: Per cominciare può parlarci dell'associazione per cui lavora?

FAAAT si occupa di questioni internazionali relative alla droga e soprattutto di questioni etiche e diritti umani. Siamo conosciuti per il lavoro presentato all’ONU con il Governo dell'Uruguay (cannabis2030.org) svolto intorno alla cannabis e allo sviluppo sostenibile, così come, nell'ultimo decennio, per il coinvolgimento dell'Organizzazione Mondiale della Sanità al fine del riconoscimento dei benefici della cannabis terapeutica nel campo della medicina (comprese le piante e le forme tradizionali di cannabis medicinale) e, quindi, per aver consentito l'esclusione della cannabis dalla Tabella IV della Convenzione Unica del 1961 sugli stupefacenti.

SSIT: Prima di passare direttamente al suo interessante studio, vuole parlarci della Convenzione sugli stupefacenti? Come ricercatore qual è la sua opinione?

La Convenzione Unica è stata redatta in dieci anni ed i governi hanno avuto il tempo di valutare attentamente tutte le opzioni, ogni parola, ogni virgola del testo. Nulla è stato lasciato al caso. Mentre nelle prime bozze c'erano specifiche disposizioni anti-cannabis, e persino un articolo intitolato "divieto della cannabis", nella versione finale adottata e tuttora in vigore questo articolo è stato espunto. Ciononostante, i redattori del testo volevano comunque fornire ai governi la possibilità (ma non l'obbligo) di vietare questa pianta. Per questo motivo, al posto di disposizioni specifiche, hanno convenuto per inserire la cannabis nella Tabella IV della Convenzione, tabella che effettivamente consente un divieto totale.

SSIT: Tuttavia, nel 2020, la cannabis è stata rimossa da questa tabella…

Il fatto di eliminare la cannabis dalla Tabella IV equivale a cambiare l'intenzione originaria degli estensori della Convenzione. Laddove, in precedenza, volevano consentire il divieto totale della cannabis, ora non lo richiedono più. Ed è su questa semplice osservazione che si basa il mio studio, un lavoro collettivo, sviluppato in diversi anni e valutato da pari. Quindi, adesso ci dobbiamo domandare, se il desiderio di sottoporre la cannabis a un regime di proibizione non è più nevralgico, all'interno della Convenzione, qual è il regime giuridico che prevale per la cannabis?

SSIT: La domanda è semplice e legittima. Cosa emerge nel suo studio sotto questo profilo?

Mentre è piuttosto facile identificare il regime legale prevalente per gli usi medici della cannabis, è meno facile identificare il regime legale per il suo consumo ricreativo. Il mio studio fa riferimento alle disposizioni dell'articolo 2, paragrafo 9, che si riferiscono agli "usi comuni nell'industria, diversi da quelli medici e scientifici", in altre parole, l'industria della cannabis non medica. Questo regime legale è perseguibile, molto flessibilmente e consente ai governi di legalizzare la cannabis non medica in conformità con il diritto internazionale e con pochissimi vincoli (ad esempio, laddove gli usi medici richiedono un sistema obbligatorio di licenze di produzione, non esiste tale disposizione per cannabis non medica). In aggiunta, ciò che è interessante, è che il concetto di "industria" non è definito nella Convenzione, e si riferisce alle modalità pratiche di organizzazione economica in ogni Paese...così, ad esempio Malta, il primo paese a legalizzare la cannabis nel quadro dell'interpretazione che propongo nel mio studio, definisce l'industria della cannabis come un'industria a misura d'uomo, senza scopo di lucro e attraverso i Cannabis Social Club.

SSIT: Quindi sta sostenendo che la base per regolamentare legalmente la cannabis esiste nella Convenzione stessa? La Convenzione non solo permette di definire in base a quale modello si vuole legalizzare (il modello industriale deve comunque consentire di ridurre i rischi, i danni e le possibilità di abuso), ma dà quasi un nuovo respiro alla riflessione più in generale sui modelli economici, dimostrando che è possibile regolamentare la cannabis senza aumentare i rischi, ed evidenziando modelli economici di delocalizzazione, incentrati sulla convivialità e sulla creazione di posti di lavoro, come appunto i Cannabis Social Club.

SSIT: La Convenzione prevede una differenziazione tra coloro che usano la cannabis per scopi medici e coloro che lo fanno al di fuori di un contesto terapeutico. Pensa che questa distinzione sia ancora valida?

Questa è una domanda filosofica molto profonda. Sì, sono d'accordo, l'uso ricreativo è inconsciamente medicinale. D'altra parte, la questione del miglioramento della qualità della vita dei pazienti potrebbe indurre alcuni a equiparare una parte dell'uso medico all'uso ricreativo. Si tratta anche di rendersi conto che non c'è nulla di grave, anzi, se le persone consumano prodotti che a prima vista non sono medicinali, ma che comunque migliorano il loro stato di salute. L'automedicazione non è un problema e anzi rappresenta una possibilità! Se tutti potessimo portare un tocco di automedicazione nelle nostre vite, alleggeriremmo senza dubbio il sistema sanitario e gli permetteremmo di concentrarsi sulle persone più bisognose di aiuto e supporto medico. E d'altra parte non c'è nulla di grave, anzi, nel fatto che i malati possano vivere gioia, piacere, risate e momenti di "svago". Vale in una strategia terapeutica più ampia: non è per niente che portiamo clown o maghi negli ospedali pediatrici. Per gli adulti, la ricreazione può assumere un'altra forma. Pertanto, questa distinzione nella Convenzione tra medico e non medico è certamente discutibile, ma non mi sembra porre un problema, anzi, sembra fornire una soluzione, perché raccomandando un circuito chiuso del circuito medico, diventa una priorità di quest'ultima. In fondo, è una questione di solidarietà. I pazienti, sono sempre al primo posto! Ha senso per me.

SSIT: L'articolo 28 della Convenzione afferma che questa non si applica laddove la cannabis sia coltivata per scopi industriali o per orticultura. Pensa che questo articolo possa proteggere coloro che coltivano cannabis per uso personale? Cosa s'intende nella Convenzione per scopi di orticoltura e industriali?

L'articolo 28 riguarda la coltivazione della cannabis e richiama l'articolo 2, paragrafo 9, che riguarda i prodotti finiti a base di cannabis dopo il raccolto (infiorescenze, resina o qualsiasi derivato). Questi due articoli esentano la cannabis (coltivazione e uso dei prodotti) per tutti gli scopi diversi da quelli medici e scientifici, nel contesto dell'industria. Quindi la coltivazione a fini industriali rientra in questo quadro. Il termine "orticultura" ha una storia complicata: è stato aggiunto per chiarire il termine industriale, e per indicare chiaramente che si trattava di un'ampia varietà di usi. Il commento ufficiale alla Convenzione Unica, pubblicato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, è molto chiaro al riguardo: "La coltivazione della pianta per qualsiasi scopo [oltre alla produzione di cannabis medicinale per scopi medico-scientifici] è esente dal regime di controllo ".

SSIT: Lei sostiene che nulla la Convenzione sugli stupefacenti limiti alla sola canapa da fibra la possibilità di essere coltivata per scopi industriali e che la parola industria debba intendersi come tutta la produzione che non sia prettamente medica. Può spiegare meglio quello che afferma?

Esattamente! In realtà è difficile spiegare qualcosa che ancora non c'è...Chiedo piuttosto a chi difende il contrario di provare la sua argomentazione... e sto ancora aspettando! Capita di citare spesso questa parola presente nell'articolo 2 paragrafo 9: "denaturazione" come se obbligasse a denaturare la cannabis non medica (e all'improvviso, non sarebbe più ricreativa ma si limiterebbe ai cosiddetti "prodotti canapa", cioè prodotti senza effetto psicoattivo). Tuttavia, la parola "denaturazione" è seguita da altre parole assolutamente essenziali: "o con qualsiasi altro mezzo". Ciò che il paragrafo 9 dell'articolo 2 ci vuol dire è che i governi sono obbligati a ridurre i rischi della cannabis per scopi non medici, denaturando o con "qualsiasi altro mezzo". Molti dei critici della mia relazione (principalmente sostenitori del proibizionismo) cercano di ignorare le parole "o con qualsiasi altro mezzo", tuttavia esiste un principio fondamentale del diritto internazionale che ci vieta di lasciare inefficaci le disposizioni. Questo è il principio della massima efficienza, o ut res magis valeat quam pereat. L'ignoranza di questa regola interpretativa, per quanto centrale, mostra il dilettantismo in termini di diritto internazionale di molti analisti della Convenzione. Nel 2022 sappiamo che la cannabis denaturata, non verrebbe consumata da nessuno e quindi non sussisterebbero grandi cambiamenti sotto il profilo della riduzione dei rischi.

SSIT: Uno dei punti principali della Convenzione è ridurre i danni e gli abusi associati all'uso di droghe. Crede che la Convenzione abbia funzionato alla luce degli ultimi sessant'anni?

Per niente. Ma non è colpa della Convenzione in quanto tale: il problema è piuttosto l'interpretazione che ne è stata fatta. Un'interpretazione che ha trovato nella Convenzione uno strumento per la guerra alla droga - un'interpretazione parziale, ma del tutto giuridicamente valida, e soprattutto ultra-egemonica, tanto è vero che, negli ultimi decenni, dal momento che sono stati gli Stati Uniti a promuoverla, potenze come Cina e Russia non si sono particolarmente opposte, anzi. Poiché, fino ad ora, quasi tutti i governi hanno scelto di vietare gli usi non medici della cannabis, non hanno messo le mani sulle leve necessarie per ridurre i danni, penso ad esempio all'analisi dei prodotti o alle informazioni qualitative sul tipo e potenza di cannabis esplicitati nell’etichettatura della confezione, o alla promozione di metodi a basso rischio come la vaporizzazione...Peggio ancora, alcuni paesi hanno addirittura vietato l'uso medico della cannabis, generando di fatto danni irreversibili ai pazienti privati dell'accesso a cure potenzialmente benefiche per la loro salute. Tuttavia, se si coglie l'opportunità di reinterpretare la Convenzione nel suo insieme, e senza i pregiudizi proibizionisti, ci si rende conto che è del tutto possibile utilizzare la Convenzione come un quadro efficace e uno strumento utile per ridurre i potenziali danni proteggendo, al contempo, i diritti umani e, così facendo, rispettando le comunità cannabiche.

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Fabrizio Dentini