Rivoglio il maglione di canapa!
Qualche tempo fa mi trovavo nella casa di montagna di mia nonna materna, una di quelle case che hanno l'orologio fermo agli anni '60. Tutto, dalla mobilia alle piastrelle, è cristallizzato negli anni del boom economico. Persino gli elettrodomestici. È stato in questo viaggio nel tempo (decisamente casalingo) che mi sono imbattuta nelle istruzioni della lavatrice targata 1962. Oltre al fatto che le avrebbe capite anche un cieco, la descrizione dei vari programmi comprendeva anche i tipi di tessuto adatti al tal lavaggio: praticamente ogni programma della vecchia S. Giorgio includeva i capi in canapa. A dimostrazione che solo 50 anni fa la cannabis sativa era una pianta ancora pienamente inserita nelle attività produttive italiane.
Qualche tempo fa mi trovavo nella casa di montagna di mia nonna materna, una di quelle case che hanno l'orologio fermo agli anni '60. Tutto, dalla mobilia alle piastrelle, è cristallizzato negli anni del boom economico. Persino gli elettrodomestici. È stato in questo viaggio nel tempo (decisamente casalingo) che mi sono imbattuta nelle istruzioni della lavatrice targata 1962. Oltre al fatto che le avrebbe capite anche un cieco, la descrizione dei vari programmi comprendeva anche i tipi di tessuto adatti al tal lavaggio: praticamente ogni programma della vecchia S. Giorgio includeva i capi in canapa. A dimostrazione che solo 50 anni fa la cannabis sativa era una pianta ancora pienamente inserita nelle attività produttive italiane.
Qualche tempo fa mi trovavo nella casa di montagna di mia nonna materna, una di quelle case che hanno l’orologio fermo agli anni ’60. Tutto, dalla mobilia alle piastrelle, è cristallizzato negli anni del boom economico. Persino gli elettrodomestici. È stato in questo viaggio nel tempo (decisamente casalingo) che mi sono imbattuta nelle istruzioni della lavatrice targata 1962. Oltre al fatto che le avrebbe capite anche un cieco, la descrizione dei vari programmi comprendeva anche i tipi di tessuto adatti al tal lavaggio: praticamente ogni programma della vecchia S. Giorgio includeva i capi in canapa. A dimostrazione che solo 50 anni fa la cannabis sativa era una pianta ancora pienamente inserita nelle attività produttive italiane.
La storia della canapa tessile ha infatti radici molto antiche nella nostra penisola: esistono reperti archeologici che dimostrano la presenza di fumatori di canapa già nei primissimi insediamenti umani in Piemonte, nel Canavese – che proprio dalla canapa prende il suo nome. La predisposizione del terreno e un clima più che favorevole ad una crescita sana e rigogliosa, spesso spontanea, ha fatto sì che l'Italia arrivasse ad essere, negli anni '50, tra le maggiori produttrici di canapa, seconda solo all'ex Unione Sovietica e alla sua smisurata estensione territoriale. Per secoli l’Italia ha esportato canapa, e da sempre la varietà italiana è stata riconosciuta come produttrice della miglior qualità di fibra tessile per indumenti.
La produzione su larga scala – se così vogliamo dire – per usi prettamente tessili va di pari passo con l'espandersi delle Repubbliche Marinare di Venezia, Genova, Pisa e Amalfi che la utilizzavano soprattutto per le corde e le vele delle proprie flotte di guerra. La stessa Marina inglese, secondo documenti che risalgono al XIV° secolo importava la canapa dall'Italia per le proprie imbarcazioni. Uno degli usi principali della fibra di canapa – tutt'ora in auge – è proprio quello destinato alla fabbricazione delle gomene, le enormi e resistentissime cime con cui le navi vengono ormeggiate in porto.
Con la diffusione capillare sul territorio – circa 100.000 ettari, secondo la Relazione sulla coltivazione e la lavorazione della canapa in Italia, pubblicata nel 1913 –, la pianta di cannabis era definitivamente entrata negli usi e costumi degli italiani, arrivando a rappresentare una risorsa nella quotidianità della vita rurale che ha caratterizzato la stragrande maggioranza della nostra penisola, almeno fino al boom economico degli anni '60.
Nel piccolo mondo antico dell'Italia contadina la canapa era sempre stata usata dunque per vestirsi e produrre qualunque tipo di cordame o tessuto. Ma serviva anche a fornire la carta – tant'è che fino all’inizio del ‘900 la quasi totalità della carta era prodotta con canapa – , i suoi semi davano un ottimo olio combustibile mentre in campo farmaceutico le sue applicazioni erano vastissime e soprattutto utilizzatissime. Era infatti normale comprare in farmacia l’estratto di canapa indiana proveniente da Calcutta e i sigaretti di canapa indiana per la cura dell’asma. Ma oltre alla cura la canapa veniva anche inalata per semplice uso ludico. Prima dall'avvento delle sigarette americane, nelle cartine degli italiani spesso si trovava canapa anziché tabacco ma, al contrario di quanto si possa pensare, quello era un segno di povertà: il tabacco era molto più costoso.
A livello di diffusione, si calcola che nella sola Emilia-Romagna, nel 1910, vi fossero 45.000 ettari di terreno coltivati esclusivamente a canapa, soprattutto nel ferrarese. Altro importante centro di produzione della canapa nel corso dei secoli è stato il Piemonte, in particolare Carmagnola che diventò il centro non solo di coltivazione, ma anche delle fasi di lavorazione e commercio per l'esportazione verso la Liguria e il sud della Francia, in particolare Marsiglia. La stessa industria di trasformazione del tiglio di canapa, prima in filato e poi in tessuto, viene inglobata nella rivoluzione industriale e già nel 1876 il Linificio e Canipificio Nazionale risulta essere una società quotata in borsa.
Fino a poco dopo la seconda guerra mondiale era dunque normale, in un paese la cui economia era essenzialmente agricola, coltivare canapa. Con la progressiva industrializzazione e l’avvento del boom economico, cominciarono ad essere imposte sul mercato le nuove fibre sintetiche e la canapa iniziò a sparire non solo fisicamente, ma anche dal ricordo e dalle tradizioni della gente.
Quando nel 1975, con la legge 685 per la disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, fu inasprito il divieto della coltivazione della canapa, nello stesso tempo vennero messe in atto severe normative per la canapa tessile. La conseguenza fu che il settore venne del tutto abbandonato. Con il restringimento della normativa contro gli stupefacenti non venne infatti tenuta in conto la profonda diversità di contenuto di tetraidrocannabinolo tra la varietà per l'estrazione tessile e quella per uso ludico e venne di conseguenza presa come dato solo somiglianza morfologica delle due specie di cannabis.
Con la chiusura della Guerra Fredda il quadro normativo sulla coltivazione di canapa cominciò lentamente a cambiare, soprattutto per l'adozione di norme dell'Unione europea. Quest'ultima, con regolamento CEE n 1164 del 1989 disponeva l'erogazione di un contributo comunitario pari a 1.300.000 lire per ettaro. Peccato che, poco dopo, in Italia venisse emanato il DPR n. 309 del 1990 recante il "Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti" che menzionava un generico divieto di coltivazione della canapa. Data la nebulosità della norma, l'interpretazione corrente era stata ovviamente quella dell'estensione del divieto. Questo fino al 1998, anno in cui, anche in Italia, venne consentita per legge la possibilità di coltivare canapa ad uso industriale, nel rispetto delle seguenti condizioni:
• la coltivazione deve essere inserita nella denuncia PAC
• deve essere seminata canapa di una cultivar compresa nell’elenco europeo delle varietà con tenore di THC inferiore allo 0,2%, certificata dal cartellino rilasciato dall’Ente Nazionale Sementi Elette)
• all'emergenza delle piante, comunicazione della coltivazione alla più vicina stazione delle Forze dell’Ordine (Carabinieri, Polizia, Finanza, Forestale)
• il quantitativo di seme impiegato non deve essere inferiore ai 35 kg per ettaro
• l'agricoltore deve avere stipulato contratto di coltivazione con un primo trasformatore autorizzato
• la resa in bacchetta secca ottenuta non deve essere inferiore ai 15 quintali per ettaro.
I successivi regolamenti CE n. 1672/2000 e 1673/2000 ribadivano le sovvenzioni comunitarie e le autorità italiane si dovettero adeguare alle regole europee. Da qui i primi modesti tentativi di reintroduzione della coltura: 290 ettari nel 2002, 857 ettari nel 2003, 1.000 ettari nel 2004 con presenza in Emilia-Romagna, Piemonte e Toscana. Ma c'è ancora molta strada da fare...