Prima delle fake news
Quando si sente parlare di leggende metropolitane solitamente si pensa a coccodrilli bianchi nelle fogne di New York, a espianti di reni non autorizzati su giovani sedotti e abbandonati, a vinili che suonati al contrario invocano Satana o, in generale, alla divertentissima canzone degli Elio e le Storie Tese “Mio Cuggino”, che è poi un compendio di tutte le sopracitate castronerie urbane. In quanto manifeste castronerie, le leggende metropolitane solitamente godono dell'attenzione della scienza solo nella misura in cui quest'ultima è funzionale a smontarle o, eventualmente, a riequilibrarle. Esiste però un campo in cui la scienza ha spesso strizzato l'occhio alla fantasia, aiutando questi miti urbani a crescere e proliferare... di Giovanna Dark
Stiamo parlando del mondo delle droghe che, per la sua intrinseca natura “fuorilegge”, è sovente stato trattato con toni molto poco neutri o – più spesso – è stato volutamente manipolato dalle Istituzioni, al fine di dare informazioni false o fuorvianti sulle sostanze. Dalla “droga dello stupro” ai sali che ti farebbero diventare uno zombie affamato di carne umana, ne abbiamo sentite tante di leggende sugli stupefacenti. Ma ce n'è una che ogni tanto ricorre, e che in questa sede ci interessa analizzare: quella relativa alla “Supercannabis”.
Stando a quanto riportano ciclicamente i nostri giornali e le nostre tv, esisterebbero alcune varietà di cannabis molto potenti in termini di sballo, che sarebbero in grado di produrre effetti devastanti sulla salute psicofisica dei consumatori. Come corollario alle loro opinioni catastrofiche, spesso i cronisti riportano la “Teoria del 16%”, un assunto nato a cavallo fra gli anni '80 e gli anni '90, secondo il quale la marijuana in commercio al giorno d'oggi sarebbe da ritenersi non più come una droga leggera bensì come una droga pesante, in virtù del suo contenuto in THC quadruplicato rispetto al passato, ossia dal 4% circa al 16%. Da qui il nome della teoria.
Questa fantomatica “teoria” – che vorrebbe la potenza della marijuana attualmente in circolo aumentata di oltre il 400% –, oltre ad avallare chiaramente l'esistenza di una dicotomia fra droghe leggere e pesanti, viene proposta ciclicamente dall'inizio degli anni '90, riferendosi ad un passato più o meno imprecisato, che farebbe sostanzialmente riferimento agli anni '60 e '70, confrontato con un “giorno d'oggi” relativo al momento storico in cui ci si trova ad enunciare il postulato.
Il nostro affezionatissimo Dipartimento per le Politiche Antidroga è da sempre un accanito fan di questa teoria e ha spesso giustificato l’accanimento nei confronti della cannabis con “l’incredibile aumento” della presenza di THC rispetto a quella dei mitici anni '60 e '70. La stessa legge Fini-Giovanardi fu figlia di quest'ottica. La “Teoria del 16%” ha però radici oltreoceano e nasce dal proibizionismo a stelle e strisce. Da quello che è possibile rintracciare negli archivi storici, il primo a presentarla pubblicamente è stato William J. Bennett, il direttore dell'Ufficio per la Politica Nazionale di Controllo delle Droghe durante l'amministrazione di George Bush padre. Verso la fine degli anni '80, Bennet dichiarò candidamente alla stampa: «Se la gente che oggi confessa di aver usato marijuana negli anni sessanta e settanta assaggiasse quella di oggi cascherebbe per terra». Altre fonti sono invece concordi nell'affermare che la teoria abbia cominciato a circolare al solo scopo di dare una base scientifica alla War on Drugs di Nixon e Reagan. Sta di fatto che, pur non avendo alcuna evidenza empirica, la “Teoria del 16%” ha presto valicato l'Oceano Atlantico per arrivare alle orecchie dei proibizionisti d'Europa.
Solo qualche anno fa, ad esempio, il quotidiano britannico The Independent ha appoggiato apertamente la campagna del governo inglese per classificare nuovamente la cannabis da droga leggera a pesante. Secondo il giornale londinese, la ragione di questa marcia indietro sui diritti civili non era altro che la Skunk: “una versione molto più potente della droga che oggi spopola nel Regno Unito – scriveva uno dei suoi articolisti – e che ha eliminato molti tipi meno potenti di marijuana dal mercato. Ora il THC si attesta all'80% della cannabis rinvenibile nelle nostre strade, comparato all'appena 30% del 2002”. In base ad astruse statistiche che dimostravano come dei campioni di marijuana sequestrati recentemente arrivino al 16% di THC, contro il 7% circa di qualche anno prima, e di altre che illustravano come la “Supermarijuana” sia causa di un aumentato numero di casi di problemi mentali, l'Independent ha anche presentato le scuse ufficiali per aver appoggiato una campagna di decriminalizzazione nel 1997.
Spesso, per giustificare l'origine del supposto aumento di THC, i media si sono riferiti a questa “nuova” cannabis come a un tipo di “marijuana OGM” o “transgenica”. Ora, non serve certo un esperto per individuare la bufala: gli incroci indotti dall'uomo per selezionare il carattere della produzione di THC fanno parte delle pratiche di breeding, le stesse che si usano per selezionare ad esempio le razze di cani e gatti. Né serve essere particolarmente perspicace per individuare la malafede di una teoria che vorrebbe un'evoluzione della pianta degna delle migliori trasformazioni Marvel: affermare che i valori di THC siano aumentati del 400% nel giro di qualche decina d'anni è pura fantascienza.
Nonostante ciò, solo qualche anno fa, il rappresentante del Congresso USA Mark Kirk, membro del Partito Repubblicano dell'Illinois, ha introdotto una legge per aumentare le pene a chi venda “cannabis ad alta potenza”, indicata col generico nome di Kush (che però noi sappiamo essere una normale varietà di cannabis, in genere al 100% Indica, proveniente dalle regioni dell'Hindu Kush). La legge si chiama “High-Potency Marijuana Sentencing Enhancement Act” e individua in suddetta cannabis “ad alta potenza” ogni tipo di marijuana con un contenuto di THC pari o superiore al 15%: in pratica, quasi qualunque varietà di ganja coltivata con semi selezionati.
Le pene massime previste dalla legge dell'Illinois per possesso ai fini di spaccio, cessione o produzione sono 25 anni di carcere e se dall'uso della sostanza risultassero morte o danni fisici gravi la pena è aumentata a non meno di 20 anni, con massimo dell'ergastolo e multe fino a un milione di dollari. Se la persona che commette reato ha precedenti penali per droga, la pena massima è aumentata a 35 anni. Peccato che Mark Kirk non sappia che il tenore minimo di THC prescritto dal governo olandese per le varietà di cannabis medicale non possa essere inferiore al 15%.
Ed è un peccato che a governare e a legiferare ci siano persone così ignoranti, perché per sbugiardare la fondatezza della “Teoria del 16%” basterebbe tenere in considerazione che non tutti i campioni di marijuana testati negli anni appartengono alla stessa tipologia di cannabis: analizzare un campione di calabrese, magari con semi, con circa il 5-6% di THC e paragonarlo ad uno di Mazar ibridata – con un contenuto in THC dichiarato del 19,5% – è come paragonare il contenuto alcolemico del Tavernello con quello di una Vodka polacca semplicemente in virtù della loro comune attinenza all'alcol, o ancora come testare per un carattere genetico come la forza fisica, e confrontare, un Pincher e un Dobermann in quanto entrambi cani.
C'è poi da dire che, per quanto il problema sia incentrato sulla quantità di THC che si troverebbe concentrata in un prodotto e sul fatto che detto prodotto ad “alta concentrazione” venga consumato, causando maggiori problemi di salute nel consumatore, i metodi per concentrare la presenza di THC sono vecchi come la storia: dalle infusioni di piante intere nel burro che preparavano Baudelaire e i suoi Maudits, alle tinture di cannabis in vendita in ogni farmacia occidentale prima del 1937, ai prodotti ancestrali come l'olio di hashish il cui scopo è proprio quello di raccogliere la parte dove si trova più THC per poi concentrarlo.
Se poi volessimo proprio dare per buona la parte di teoria che vorrebbe gli allora figli dei fiori devastati dall'high varietà attuali, è bene sapere che già allora erano tranquillamente reperibili tipi di hashish molto pregiati e ricchi in THC come la Charas e la Manali Cream dall'India, il Temple Balls nepalese, il Libanese Rosso, il Libanese Oro, il tradizionale Kif marocchino e molti altri. Anche alcuni tipi di cannabis erano già in quegli anni molto potenti, vedi la Thai Stick thailandese, la Ganja indiana, la Panama Red e la Acapulco Gold.
Inoltre, è proprio negli '60 e '70 che iniziava a nascere lo studio e lo sfruttamento consapevole dell'ibridazione della cannabis. Grazie soprattutto alla tolleranza che i Paesi Bassi dimostravano verso la questione growing, molti coltivatori e genetisti della marijuana in fuga dagli Stati Uniti e da altri paesi poterono godere di “asilo politico” e portare avanti i propri studi: Haze, NYC Diesel, Northern Light, Skunk, Orange Bud ed altre delizie furono ibridate proprio in questo periodo tramite rifornimenti di semi procurati dall'Afghanistan, dall'India o dal Marocco, oltre che ovviamente tramite la propagazione per talee.
Se i tipi di Marijuana citati avevano già, per l'epoca, dei buoni livelli di THC, l'hashish così come la Charas potevano arrivare anche fino al 40%. Pare impossibile da credere, infatti, che le varietà di marijuana in circolo negli '60 e '70 – quella fumata dai Beatles, dai Jefferson Airplanes, da Jim Morrison e da Janis Joplin, quella della summer of love e del movimento hippie – avesse un tenore dell'1-2% di THC: che fosse sostanzialmente infumabile perché priva di effetti psicoattivi a quelle percentuali, è un postulato scientifico ampiamente discutibile. Tutto ciò a dimostrazione che, se effettivamente sono stati realizzati dei test per provare e giustificare la "Teoria del 16%", questi sono stati effettuati in evidente malafede fra campioni disomogenei di cannabis.
Oltre a rimanere un mistero come mai, se la cannabis del passato era così “poco potente”, fu messa al bando e additata come «la droga più in grado di causare violenza nella storia del genere umano», è in fondo impossibile negare che la “Teoria del 16%” sia una creatura ad uso e consumo propagandistico, concepita solo ed esclusivamente per mantenere vivo l'allarmismo riguardo alla cannabis presso l'opinione pubblica. Uno specchietto per allodole insomma, che però riesce ancora ad abbagliare nonostante nel tempo le sue basi siano state ampiamente screditate da molti scienziati, e in alcuni casi perfino dal Governo USA stesso.
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Soft Secrets