Nemesi medica e canapa terapeutica

Soft Secrets
08 Jun 2013

Leggendo il libro di Ivan Illich, "Nemesi medica. L'espropriazione della salute" ho pensato a quanto la tesi dell'autore avesse a che vedere con il contesto culturale ed i limiti pratici davanti ai quali le persone che in Italia utilizzano canapa, per motivi medici, sono costretti a confrontarsi.


La nemesi medica, secondo Illich, è l'inevitabile ritorno negativo causato dall'istituzionalizzazione della salute, il prezzo che dobbiamo pagare per aver delegato la nostra cura a dei tecnici specializzati, i medici, che da una parte ci hanno affrancato dal dover convivere con il dolore e la paura dell'ignoto (le malattie), ma al contempo ci hanno privato della libertà di scegliere per noi stessi e per il nostro corpo. Come Illich spiega: “La società ha trasferito ai medici il diritto esclusivo di stabilire che cosa è una malattia, chi è o può diventare malato e cosa occorre fargli.” La nemesi medica rappresenta gli effetti collaterali che sono connaturati al percorso che la medicina ha compiuto nei secoli: da quando l'uomo si curava da solo, grazie al sapere trasmesso e diffuso nella comunità di appartenenza a quando all'uomo non è stato più permesso mettere becco sui rimedi papabili per ottenere la guarigione. Ma torniamo un momento indietro.

Per chi non lo sapesse, in Italia esiste una decreto ministeriale del 2007 a firma Livia Turco che permette al paziente di importare canapa attraverso il canale istituzionale: nella maggior parte dei casi viene acquistata dai Paesi Bassi attraverso una ditta, la Bedrocan, che collabora con il Ministero della Salute olandese. Allora diremo, tutto bene?

Be, certamente meglio che niente. Il problema dell'approvvigionamento si sfaccetta in due direzioni: da un lato i tempi di attesa burocratica sono lunghi e spesso i pazienti rischiano di rimanere senza farmaco, con un conseguente aggravamento del quadro clinico, dall'altro, l'importazione dall'estero e relative spese di spedizioni sono molto care e quindi molte persone non possono sostenerle. Soluzione? C'è chi si rivolge al mercato nero per un prodotto poco affidabile e spesso di scarsa qualità e chi invece decide di autocoltivare la propria medicina, con costi contenuti e, dopo anni di esperienza con risultati soddisfacenti.

In entrambi i casi però, se scoperti, si rischiano gravi conseguenze penali. In Italia la semplice detenzione di un quantitativo oltre gli 0,5 grammi ricade pregiudizievolemente e per assurdo nella fattispecie di detenzione a fini di spaccio, e fra i due casi, strano ma vero, la situazione processuale diventa più intricata per chi coltiva, senza foraggiare il narcotraffico, rispetto a chi lo finanzia. Ma quale morale sottosta a tale prassi legislativa? Come è mai possibile che chi finanzia il narcotraffico abbia conseguenze relativamente più lievi di chi coltiva in proprio per consumo personale (ludico o terapeutico che sia)?

Nel caso italiano ragionare sul perché sia così difficoltoso e penalizzante accedere a questa terapia alternativa, significa riconoscere un'eccessiva intrusione istituzionale nel settore intimo della salute e del nostro benessere quando esso ha a che fare con l'accesso alla canapa. Tra l'altro questa stessa intrusione è giustificata con il fine ultimo del nostro benessere, cioè si afferma che nessun altro al di fuori dei tecnici della salute ha il diritto di curarci.

Per come stanno le cose rispetto all'accesso che lo Stato garantisce attualmente alla canapa medica, per il bene dei pazienti capita spesso che si venga lasciati senza continuità terapeutica (tempi burocratici e costi) o, se vengono trovati nel tentativo di produrre, coltivando, la loro medicina, sempre per il loro bene li schiaffano in galera.

La situazione italiana è quella di centinaia di pazienti, considerando sempre che se la canapa fosse liberalizzata sarebbero probabilmente migliaia, che isolati e dispersi (quando non raggruppati in combattive associazioni) su tutto il territorio nazionale già ne fanno uso, ne beneficiano e vorrebbero che si trovasse una soluzione alla qualità del farmaco e al suo costo.

Se la canapa è illegale, è di per se complesso poterne studiare le potenzialità terapeutiche.

Ed è qui che ritorna in gioco il libro di Ivan Illich, l'autore ci spiega infatti come lo sviluppo del settore sanitario-ospedaliero abbia raggiunto nelle nostre società un'ampiezza tale da non prevedere alcuna forma di terapia esterna allo spettro di quelle proposte e condivise dalla comunità medica.

Il problema quindi è l'orizzonte entro il quale abbiamo diritto di scegliere. Ma non solo, anche se la comunità medica internazionale ha già percorso passi importanti nel riconoscere il valore taumaturgico della canapa, qui da noi l'importante è che non venga accordato al singolo paziente il diritto di produrre da sé la propria medicina. Deve essere il sistema industriale farmaceutico ad erogare questo genere di servizi e siccome una pianta ed i suoi principi attivi naturali non sono brevettabili e sfruttabili commercialmente, nessuno ha il diritto di arrogarsi la potestà di cercare individualmente e senza controllo istituzionale una soluzione al proprio malessere. Illich conclude: “Viene rapidamente maturando il problema politico di stabilire un limite alla cura professionale della salute.[...] la crisi della medicina può permettere al profano [NDR. il cittadino-paziente] di rivendicare efficacemente il proprio controllo sulla percezione, classificazione e decisione sanitaria. [...] La nemesi medica resiste ai rimedi medici. Può essere rovesciata solo con un recupero, da parte dei profani, della volontà di farsi carico di se stessi e attraverso il riconoscimento giuridico, politico e istituzionale di questo diritto si salvaguardarsi, che stabilisce dei confini al monopolio professionale dei medici”.

Non voglio dire ovviamente che i medici siano una casta satanica, tutt'altro. I medici senza dubbio contribuiscono nella maggior parte dei casi a rendere la nostra vita più semplice. Quello che però i pazienti chiedono con maggiore insistenza e con il coraggio di rischiare la galera per curarsi e garantirsi una vita il più degna possibile è che l'istituzione medica non faccia guscio, non sia restìa a sperimentare le esperienze sviluppate dai profani: la loro conoscenza applicata venga valorizzata e non osteggiata, vengano condivisi tramite i canali istituzionali le loro scoperte, si mettano a loro disposizione consulenti botanici, esperti di coltivazione e medici sensibili all'argomento per poter far rete e prendere il pesce grosso che poi non è altro che il riappropriarsi della volontà di decidere per se stessi e per la propria salute.

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