Martire del proibizionismo
Cosa ci insegna la tragedia del ragazzo suicida a Lavagna
Morire a 16 anni per nemmeno 10 grammi di fumo. Questa non è la classica storia di malavita, né un caso di cronaca nera: quella del ragazzo di Lavagna è una parabola proibizionista, con attori e trama degni di una tragedia greca. La notizia ci è piombata addosso mentre stavamo ultimando le bozze dello scorso numero. Ne abbiamo fatto cenno nell’editoriale ma la vicenda di Carlo – ironico nome di fantasia appiccicato dalla stampa al sedicenne morto suicida – merita sicuramente più parole, approfondimento e soprattutto riflessione. Affinché quello che sia successo, non capiti mai più. Carlo è un ragazzo come moltissimi altri suoi coetanei: il calcio, i voti a scuola non propriamente eccelsi, una famiglia unita e amorevole. Lo scorso 13 febbraio, come purtroppo è accaduto a tanti altri suoi coetanei, Carlo riceve la visita della Finanza nella sua scuola: cani che annusano tra i banchi e sbirri che frugano negli zaini. Carlo, il cui vero nome è Giovanni, non sa che a chiamarli è stata sua madre e che sarà proprio lui uno tra quelli che i finanzieri beccheranno con qualcosa addosso. Non è ancora chiaro quanto hashish il ragazzo possedesse effettivamente: alcune ricostruzioni dicono che ne avesse 10 grammi a scuola e altri a casa (sarebbe stato il ragazzo stesso ad autodenunciarsi una volta perquisito). Altre versioni dicono che a scuola ne avesse ancora meno, e i 10 grammi sarebbero stati trovati a casa sua. In ogni caso si tratta di un valore compreso probabilmente tra i cinquanta e i cento euro, a seconda della qualità dell’hashish: una quantità compatibile con il consumo personale e non di certo con lo spaccio. Eppure i finanzieri della compagnia di Chiavari decidono lo stesso di continuare la perquisizione a casa: procedura prevista senza l’autorizzazione di un magistrato, visto che la legge tuttora presume che ogni possessore sia anche un potenziale spacciatore. Nonostante la prassi indichi un atteggiamento decisamente discrezionale (e le cronache lo hanno più volte dimostrato), le forze dell’ordine decidono comunque di esporre un ragazzo di 16 anni al giudizio inclemente di un paese di 12.000 anime e, con tanto di volante a lampeggiante acceso, si dirigono verso l’appartamento di famiglia. Nonostante rischiasse in fondo solo una sanzione amministrativa, Carlo ha pensato che tutta quella situazione fosse troppo per lui e mentre gli agenti parlavano in un’altra stanza con i genitori, si è lanciato dal terzo piano, abbracciando la morte piuttosto che le conseguenze di una perquisizione. Era ancora vivo quando sono giunti i primi soccorsi, quindi viene chiamato l’elicottero per un trasporto urgente al San Martino di Genova. La Finanza carica in auto i genitori e si dirige al pronto soccorso. Quando l’ambulanza arriva all’appuntamento con l’elicottero, il sedicenne è già morto a causa delle numerose lesioni interne. Personalmente sono stata profondamente turbata dalla vicenda di Lavagna, soprattutto dal comportamento di una madre che denuncia il proprio figlio adolescente per affrontare quello che lei riteneva un insormontabile problema: il consumo di marijuana. Il comportamento di questo genitore può, ovviamente, essere giudicato in tanti modi, dipende dai criteri che adottiamo. Per quanto mi riguarda, ho provato a concentrarmi sul momento del funerale. «Grazie per aver ascoltato l'urlo di disperazione di una madre che non poteva accettare di vedere suo figlio perdersi». Queste le parole da lei usate sul pulpito della chiesa, di fronte al feretro di un figlio che ora è davvero perduto. E queste le parole che mi hanno convinto a non giudicare questa donna se non come il prodotto perfetto di anni di propaganda proibizionista. Come già accennato, era stata lei il mattino di quel 13 febbraio ad andare a parlare con i finanzieri perché aveva sentore del fatto che girasse la droga davanti a scuola. «Si è rivolta a noi perché dopo innumerevoli tentativi di convincere il figlio di smettere di farsi di spinelli non sapeva più cosa fare – ha raccontato all’ANSA il generale Renzo Nisi, comandante provinciale della Guardia di Finanza - noi abbiamo organizzato un servizio e siamo andati lì». Sarebbe troppo facile stigmatizzare questa donna e chiamarla moderna Medea. Troppo facile puntare il dito e addossarle la colpa della morte del suo stesso figlio. Se la signora è colpevole di qualcosa, lo è purtroppo di ignoranza. Per quanto snervante, dobbiamo infatti tentare di comprendere il senso del suo comportamento. Cosa può spingere un genitore a denunciare il proprio figlio perché “si fa le canne”? E cosa può spingere un operatore di polizia che riceve tale denuncia a perquisire la stanza di un ragazzo di 16 anni incensurato, dopo aver trovato nelle sue tasche qualche grammo di hashish, come se fosse uno spacciatore? L’unica risposta possibile è: una mentalità ed un modus operandi proibizionista, una concezione mutuata da notizie false ed elementi non scientifici. Adottando un simile approccio, le droghe illegali sono tutte uguali, senza distinzioni: la cannabis è pericolosa come qualsiasi altra droga e i consumatori di droghe illegali, nessuno escluso, sono visti come soggetti impotenti, in totale balia del potere farmacologico della sostanza. Attraverso le lenti del proibizionismo, erroneamente, una correlazione tra fenomeni diventa una spiegazione e, di conseguenza, la cannabis diventa una “droga di passaggio”: poiché la maggior parte dei consumatori di eroina ha incominciato la sua carriera di consumo con la cannabis, allora la cannabis è pericolosa. Ovviamente, come la maggior parte di noi, le prime sostanze che gli eroinomani hanno utilizzato nella propria adolescenza sono legali (alcol e tabacco), ma gli occhiali del proibizionismo questo fenomeno non lo vedono. E non importa se la quasi totalità dei consumatori di cannabis non diventerà mai un consumatore di eroina o di cocaina, i proibizionisti questa evidenza empirica non riescono proprio a vederla. Allora, se ci mettiamo nei panni di una madre, a cui vengono proposti questi occhiali come gli unici strumenti per osservare il consumo di droghe, la sua preoccupazione e la sua reazione di fronte alla scoperta del consumo di cannabis del proprio figlio non ci appaiono più così incomprensibili. La sua reazione è il prodotto di una specifica cornice culturale attraverso cui osserviamo il consumo di droghe: quella distorta del proibizionismo. Eppure è difficile non tenere a mente le parole della madre sempre nel corso della funzione. Così attente, così precise, così consapevoli. Così programmatiche. Quasi una lezione ai coetanei, più che un addio al proprio figlio: «C’è qualcuno che vuole soffocarvi, facendovi credere che sia normale fumare una canna, normale farlo fino a sballarsi, normale andare sempre oltre» ha detto. Per aggiungere un invito: «Diventate protagonisti della vostra vita e cercate lo straordinario. Straordinario è mettere giù il cellulare e parlarvi occhi negli occhi. Invece di mandarvi faccine su Whatsapp, straordinario è avere il coraggio di dire alla ragazza sei bella invece di nascondersi dietro a frasi preconfezionate. Straordinario è chiedersi aiuto proprio quando ci sembra che non ci sia via di uscita. Straordinario è avere il coraggio di dire ciò che sapete. Per mio figlio è troppo tardi ma potrebbe non esserlo per molti di voi, fatelo». Alla fine, prima dell’addio al figlio, si è rivolta alla comunità dei genitori: «La sfida educativa non si vince da soli nell’intimità delle nostre famiglie, soprattutto quando questa diventa una confidenza per difendere una facciata, non c’è vergogna se non nel silenzio: uniamoci, facciamo rete». Tutto questo si poteva forse evitare. Le tracce per poter trarre una conclusione sono ovviamente pochissime e giudicare una famiglia non è mai semplice. Eppure non riesco a non percepire, nella base che tiene in piedi queste parole, un surplus di ideologia, una struttura che probabilmente ha imboccato anzitempo la soluzione “poliziesca” prima di provarne altre, indubbiamente più sensate se si pensa che il soggetto è comunque un adolescente incensurato. Altro non si può dire, se non che forse tutta quella consapevolezza poteva essere spesa altrimenti. Magari puntando sulla fiducia, soprattutto quella che un figlio solitamente ripone nella propria madre. I miei buoni propositi di sospensione del giudizio si infrangono perciò davanti alla totale mancanza di fiducia che questa madre ha dimostrato nei confronti non solo di suo figlio, ma del suo stesso ruolo genitoriale. Davanti alla tragedia di Lavagna non ho potuto far altro che chiedermi: può una madre permettersi il lusso di chiedere aiuto, per fare la madre, a qualcuno che ha solo il compito di reprimere e punire? Per quanto frustrante possa essere crescere un adolescente, com’è possibile che un genitore preferisca la via della repressione piuttosto che quella del dialogo? Alcuni l’hanno chiamata “madre coraggio” ma alla mamma di Carlo il coraggio è probabilmente quello che più è mancato. Il coraggio vero sarebbe stato quello di parlare con questo ragazzo, di cercare di capire perché utilizzasse cannabis e cosa lo spingeva a farlo. Se lo avesse fatto, la signora avrebbe avuto probabilmente una nuova e più completa visione della sostanza e della vita sicuramente normalissima che suo figlio conduceva, e forse non avrebbe sentito l’esigenza di rivolgersi alla Finanza. Ma del senno di poi ce ne si fa sempre ben poco. Di fronte al suicidio di questo adolescente, farsi delle domande e rimettere in discussione tutto è un dovere, prima ancora che un esercizio di retorica. Soprattutto se, come ribadito più volte dalla Guardia di Finanza, l’obiettivo è quello di tutelare i minori. La punizione e il divieto rappresentano ancora oggi due delle pietre pesantissime sulle quali si costruisce lo stigma e la condanna sociale. E, come la storia di Carlo/Giovanni ci insegna, con le quali si producono vittime. La normalizzazionedella cannabis non è più derogabile. Il ddl dell’intergruppo sta per tornare nel frattempo in Parlamento, ci auguriamo di cuore che l’aula tenga conto di quanto successo a Lavagna. di Giovanna Dark
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Soft Secrets