L’altra faccia del cannabusiness Americano - Razzismo e segregazione nella corsa all’oro verde

Soft Secrets
27 Jun 2018
Siamo abituati a descriverlo come un mondo in cui è tutto rose e fiori, ma non è purtroppo così. La legalizzazione della cannabis negli Stati Uniti ha portato evidenti benefici all’economia e alla società ma nasconde un peccato originale che raramente viene menzionato: il cannabusiness a stelle e strisce è rimasto quasi esclusivamente riservato agli imprenditori bianchi. Pochissimi ispanici, pochissimi afro-americani. Per quanti pensavano che la legalizzazione avesse finalmente sconfitto la decennale “war on drugs”, c’è purtroppo da ricredersi. I dati parlano chiaro: le persone dalla pelle chiara, o caucasici, stanno facendo letteralmente montagne di soldi grazie alla stessa cannabis per cui gli ispanici e gli afro-americani sono messi in prigione. Sebbene più della metà degli Stati Uniti abbia legalizzato a vari livelli il possesso e il consumo di cannabis – medica o ricreazionale –, quelle che statisticamente e storicamente sono state le categorie più colpite dalla war on drugs sono tutt’ora lasciate fuori dal sistema, costrette in una segregazione che non può non essere definita razziale. Alcuni stati ad esempio, nelle norme che regolano la cannabis legale, hanno volutamente specificato che le persone con precedenti penali relativi all’uso o alla cessione di sostanze stupefacenti non possono avere accesso al mercato, né come titolari né come dipendenti. Considerando che a livello federale la cannabis rimane ancora una sostanza proibita, è facile immaginare le ricadute di una tale decisione. Per capire meglio la portata del fenomeno, basta osservare i dati forniti da un recente censimento dei dispensari USA: su oltre 3200 attività commerciali, meno di 50 sono gestite da una persona di colore. Un altro esempio: nello stato del Maryland, su 145 richieste di licenza per coltivare cannabis medicinale, solo 15 sono state approvate e nessuna di queste è stata concessa al rappresentante di una minoranza etnica; il tutto nonostante nello stesso bill che ha legalizzato la cannabis medica, ci siano precise indicazioni sul rispetto delle pari opportunità di accesso al mercato. Ora, anche su queste pagine abbiamo spesso rappresentato la realtà americana come una nuova eldorado della cannabis. Tutti quando pensiamo al Colorado o alla California ci immaginiamo le file ai dispensari e le celebrazioni pubbliche per il 4.20. Purtroppo però, quando uno stato legalizza la canapa, ciò non significa che sia una vittoria per tutti. Perché tutte quelle persone che prima venivano arrestate, giudicate colpevoli ed infine incarcerate per reati legati alla cannabis stanno ancora pagando le conseguenze. Persone che, negli States, appartengono alle seguenti 3 categorie: neri, ispanici e poveri. Le persone di colore hanno 3.7 probabilità in più di essere arrestate e giudicate per reati connessi alla cannabis, rispetto ai connazionali dalla pelle bianca: un dato che fa riflettere, soprattutto alla luce del fatto che in America il consumo di cannabis è diffuso allo stesso modo tra bianchi e neri. Se non bastasse, anche una volta scontata la pena, queste persone rimangono con lo stigma appiccicato addosso: le banche rifiutano loro prestiti o mutui, i datori di lavoro le snobbano e, in alcuni stati come la Florida, rimangono addirittura escluse dal diritto di voto. Di buono c’è però che la lunga onda della legalizzazione, iniziata nel 2013, ha dato il via anche ad una generale revisione delle procedure penali e alcuni stati hanno deciso di utilizzare questi strumenti in senso inclusivo. In Oregon ad esempio, le corti hanno deciso per una generale revisione delle sentenze legate al consumo e al possesso di cannabis. Los Angeles ed Oakland sono andate addirittura oltre, implementando la concessione delle licenze e dando priorità alle domande provenienti da quanti hanno subito condanne relative alla cannabis. Le due metropoli della California hanno anche deciso di agevolare le richieste di quanti provengono da quartieri storicamente colpiti dagli arresti compiuti in nome della war on drugs. È un dato di fatto che le comunità meno abbienti, composte a maggioranza da latinos e afro-americani, abbiano e stiano ancora sperimentando un tasso di arresti e carcerazioni elevatissimo per reati connessi alla marijuana. Arrivati al 2018 sarebbe anche ora di dire basta. Soprattutto alla luce del fatto che il movimento antiproibizionista dovrebbe essere per vocazione un movimento inclusivo, ecumenico e culturalmente aperto. Le cronache ci riportano sempre più spesso di episodi di razzismo e violenza fascista – Macerata è solo l’ultimo è più plateale degli esempi –, apprendere che anche il modello a cui tutti guardano in Italia ha il suo lato oscuro, dovrebbe servire da stimolo per improntare le future richieste in senso inclusivo o quantomeno ad orientarsi un po’ di più sul piano politico. Perché, diciamolo, non esistono e non devono esistere vittime di serie A o serie B. La war on drugs, in quanto guerra, è rivolta a tutti: non lasciamo sempre gli stessi a sacrificarsi in prima linea. Giovanna Dark
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