Finalmente le Sezioni Unite sconfessano anni di oscurantismo: la coltivazione di cannabis a scopo personale non è reato.

30 Dec 2019

Dopo la recente sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, che ha evidenziato che la coltivazione di cannabis a scopo personale non è reato, abbiamo dato parola agli Avvocati Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti di Tutela Legale Stupefacenti per un approfondimento


Un passo avanti dopo anni di oscurantismo è arrivata una svolta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione sulla tematica della coltivazione di cannabis a scopo personale.   A cura di Avv. Claudio Miglio e Avv. Lorenzo Simonetti di Tutela Legale Stupefacenti.

Un salto nel passato

Ormai è storia nota quella dell’impossibilità nel nostro paese di parlare di cannabis in modo sereno, senza perdere il lume della ragione perché soverchiati dal pregiudizio ideologico. Per la generazione anni ‘80, alla quale apparteniamo, il motivo per cui questo tema debba essere sempre affisso su qualche bandiera costituisce un rebus. Il tempo e la cultura dei concerti degli anni 60-70 apertamente ispirata al “sesso-droga-rock&roll”, cara al mondo hippy e prestata ad una certa intellighenzia di sinistra che va fiera di ritrovarsi nei salotti radical chic sorseggiando vino e fumando uno spinello, dovrebbe essere storia lontana.

Eppure, quel decennio ha segnato per sempre il destino della marijuana, diventata da allora oggetto di uno scontro tra destra e sinistra quasi celasse un “valore” da attaccare o da difendere a seconda delle rispettive posizioni. Anzi, è accaduto che i “valori” liberali che dovrebbero guidare la cosiddetta destra – ispirati alla fiducia nell’individuo capace di autodeterminarsi – non valgano soltanto quando si parli di droghe.

Capite bene che fin quando il dibattito sulla liberalizzazione o, meglio, regolamentazione dell’uso delle sostanze stupefacenti non si emanciperà dallo scontro ideologico nel senso più bieco del termine, non si avrà mai quella onestà intellettuale che serve per decidere bene e con giustizia. Questa premessa è necessaria come dimostra la recente sentenza della Suprema Corte a Sezioni unite – le cui motivazioni ancora non sono state pubblicate – che ha chiaramente sconfessato, niente meno che, la decisione n. 109 del 2016 della Corte costituzionale intervenuta proprio sul tema della coltivazione di marijuana.

Il divario, infatti, tra le due autorevoli pronunce, intervenute soltanto a tre anni di distanza, si presenta all’attenzione del cittadino e soprattutto del giurista come una circostanza più unica che rara: non si tratta, infatti, soltanto di interpretazioni diverse il cui scontro costituisce il normale dialogo tra corti, ma cela – come si dimostrerà subito – quel pregiudizio ideologico, al quale prima si accennava, che ha sospinto la Corte Costituzionale a negare una regola di buon senso.

Ciò si afferma non perché il relatore di quella sentenza fu il Giudice Avvocato Giuseppe Frigo – di nomina parlamentare proposto dall’allora Popolo della Libertà – ma perché, di fronte alla richiesta della Corte d’Appello di Brescia di valutare l’offensività della coltivazione ad uso personale, la Corte Costituzionale semplicemente non ha risposto.

Il consumatore e lo spaccio, un oceano di contraddizioni giurisprudenziali

Ma procediamo per ordine. L’origine del problema nasce dall’infelice testo dell’art. 75 d.P.R. n. 309/1990 che, nell’escludere rilevanza penale a determinate condotte orientate all’uso esclusivamente personale, non menziona quella di chi coltiva (Chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope fuori dalle ipotesi di cui all'articolo 73, comma 1-bis […] è sottoposto […] a una o più delle seguenti sanzioni amministrative: […]).

L’omissione non si giustifica né sul piano logico, perché ove si volesse punire con la sanzione penale chiunque “immetta” nuova sostanza, allora non si spiegherebbe perché chi “importa” non è ugualmente pericoloso al pari di chi coltiva; né sul piano della politica criminale che ha ispirato la legislazione del 1990, secondo la quale meritevole del rimprovero penale è lo spacciatore e non il consumatore.

Del resto non è un caso che, anche a livello europeo, la decisione quadro del Consiglio dell'Unione Europea n. 2004/757/GAI del 25 ottobre 2004, nel delimitare le condotte connesse al traffico di stupefacenti in relazione alle quali gli Stati membri debbano prevedere la punibilità, esclude espressamente dal campo di applicazione della decisione una serie di condotte, compresa la coltivazione di piante dalle quali si ricava lo stupefacente, se tenute dai loro autori soltanto ai fini del loro consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali.

Come a dire che se può ammettersi una detenzione e finanche un’importazione a fini esclusivamente personali escludendo la rilevanza penale, sarebbe un controsenso considerare sempre e comunque “spacciatore” chi coltivi per scopo personale. È sufficiente comparare l’esempio del consumatore che si sia approvvigionato di una piccola scorta di sostanza stupefacente per il proprio bisogno, non punibile – come detto – con la sanzione penale, con colui il quale, anche solo coltivando una piantina di cannabis, si vede processato e condannato come un normale spacciatore, per intravedere l’evidente incongruenza del sistema: dietro la patina della tesi giuridica che predica la rilevanza penale della coltivazione ad uso personale non v’è altro che pregiudizio.

Già, pregiudizio: espressione forte che volutamente esce dal politicamente corretto perché siamo stufi di un’ipocrisia durata più di dieci anni, da quando un’altra sentenza della Cassazione a Sezioni unite del 2008 affermò l’esatto contrario della decisione trapelata qualche giorno fa. Il discorso giuridico che ispirò quella nefasta pronuncia è molto semplice, comprensibile anche per il comune cittadino non avvezzo ai panegirici legali: poiché quando si coltiva una pianta di sostanza stupefacente non si è in grado di sapere in anticipo quanta sostanza illecita può essere estratta, è permanente il dubbio (o meglio, il pericolo) che quella sostanza anche in parte possa essere ceduta a terzi. Ne consegue la necessità di una sanzione penale come monito per reprimere tali condotte.

Fino a qui, si potrebbe dire, nulla di strano per un sistema ordinamentale che vieta la circolazione delle droghe; è indubbio il maggior pericolo insito nella condotta di coltivazione proprio perché sussiste una minore affidabilità rispetto alla destinazione all’uso personale, conseguente all’impossibilità di determinare con sufficiente certezza la quantità di sostanza stupefacente ricavabile dalla piante coltivate. Eppure, il pregiudizio a cui si faceva cenno emerge laddove, nonostante la prova dell’uso esclusivamente personale della sostanza, si continui a sospettare di essere dinanzi ad uno spacciatore.

Non sono mancate pronunce, anzi, secondo le quali «costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale» (tra le tante, Cass. 13 ottobre 2009, n. 49528). La rilevanza penale, dunque, non veniva ancorata al “pericolo” di cessione perché anche dinanzi al conclamato uso personale la condotta assumeva disvalore.

Questa era la contraddizione palese, l’ipocrisia manifesta che un giurista non può non vedere; tanto più alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale proprio in tema di reati di pericolo astratto, segnata dalla rivalutazione dell’offensività della condotta: se un comportamento astrattamente “pericoloso” si dimostra nel concreto non offensivo poiché non mette in pericolo il bene giuridico protetto, non potrà predicarsi alcun disvalore penale.

Tirando le fila del discorso, poiché la normativa in tema di stupefacenti mira a tutelare l’ordine pubblico, la sicurezza e la salute collettiva, perché dovrebbe punirsi una condotta che, così come accade per la detenzione, indirizzandosi al solo consumo personale, non è lesiva di quei “valori” protetti dal legislatore? Se si dimostra che la coltivazione di sostanza stupefacente è ad uso esclusivamente personale, quale offesa reca all’ordinamento? Forse offende la sensibilità politica di qualcuno, ma non certamente – ed è quel che conta – i beni giuridici tutelati dal Testo Unico Stupefacenti.

Quando si parla di “offensività” del reato deve, dunque, aversi riguardo al pericolo che esso ha nel ledere i valori protetti dal legislatore; eppure per decenni finanche la Corte costituzionale (da ultimo con la sentenza n. 109 del 2016) ha fatto finta di non intendere, relegando l’offensività alla “capacità drogante della pianta”. Non occorre certamente un grande sforzo di intelligenza per ritenere che una pianta, sebbene appartenente al tipo cannabis, ma non in grado di produrre sostanza drogante sia “inoffensiva”. Non è più sufficiente insomma, che la pianta sia conforme al tipo cannabis, ma è necessario che con la sua produzione di THC possa concretamente offendere la salute pubblica e cioé il bene tutelato dalla legge.

L'astratto concetto di offensività della salute pubblica

Il concetto di offensività invocato dalla Corte d’appello di Brescia quando si era rivolta al Giudice delle Leggi nel 2016 era un altro; era quello sopra evocato: «la incriminazione di una condotta che, non essendo finalizzata alla cessione a terzi dello stupefacente coltivato (bensì alla produzione di stupefacente per l'esclusivo consumo personale del coltivatore) appare del tutto estranea sia all'evento che la norma intende scongiurare (la cessione al consumatore, e cioè la circolazione della droga, che ne alimenta il mercato), sia alla lesione o alla messa in pericolo dei valori che la norma intende tutelare (la salute pubblica, anche sotto la specie del normale sviluppo delle giovani generazioni, nonché la sicurezza e l'ordine pubblico, che da tale circolazione/mercato sono messi in pericolo), si pone in contrasto con il principio di offensività, in quanto stabilisce una sanzione penale, sotto specie di una restrizione della libertà personale, come risposta ad una condotta inidonea a ledere il bene giuridico sotteso al sistema della legislazione in tema di stupefacenti» (così l’ordinanza di rimessione, n. 200 dell’11 giugno 2015 della Corte di Appello penale di Brescia, in Gazz. Uff , I Serie Speciale - Corte Costituzionale n. 41 del 14.10.2015).

Ebbene, su questo preciso e cruciale aspetto la Corte Costituzionale non ha affatto risposto; anzi ha dato implicitamente una risposta contraria affermando che il «detentore a fini di consumo personale dello stupefacente raccolto e il coltivatore in atto rispondono entrambi penalmente»: come a dire che la coltivazione di stupefacente anche quando sia provato l’uso esclusivamente personale va comunque perseguita.

Fortunatamente il pregiudizio prima o poi si scontra con il pensiero; ed esso prima o poi si cristallizza in qualche sentenza, come è accaduto per quelle timide pronunce della Suprema Corte che, partendo proprio dal concetto di offensività del reato, hanno affermato che: «l’ambito di tale riconoscibile inoffensività è, ragionevolmente, quello del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione tale da escludere la possibile diffusione della sostanza producibile e/o l’ampliamento della coltivazione;  l’onere della prova, spettando all’accusa dimostrare la realizzazione del fatto tipico, va ritenuto tendenzialmente a carico dell’imputato anche se è probabile che la condizione di inoffensività sia di immediata percezione.

Risulta quindi corretto affermare che l’avere coltivato due piantine, senza alcuna ragione di ritenere che i ricorrenti avessero altre piante non individuate e, quindi, essendo certo che quanto individuato esauriva la loro disponibilità senza alcuna prospettiva di utile distribuzione in favore di terzi consumatori, non è in concreto una condotta offensiva per le ragioni anzidette» (Cass. 10 febbraio 2016, n. 5254).

Tradotto in parole povere, se la coltivazione si dimostra essere ad uso esclusivamente personale, nessun “valore” tutelato dal legislatore viene messo in pericolo e dunque leso; pertanto la condotta deve ritenersi non offensiva e, dunque, non punibile.

Attendendo le motivazioni delle Sezioni Unite...

In attesa di leggere le motivazioni delle Sezioni Unite in merito alla coltivazione della cannabis a uso personale, la massima provvisoria sembra porsi in continuità con l’indirizzo ora ricordato laddove sostiene che: «devono ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore».

Sembra dunque, finalmente, essere stato recepito il “vero” concetto di offensività propria di un diritto penale moderno che non può punire fatti inoffensivi. Resta tuttavia l’incertezza di come debba valutarsi la destinazione all’uso personale e, soprattutto, l’ennesima figuraccia del legislatore che, ancora una volta, si è dimostrato incapace di risolvere i problemi confermando la cattiva abitudine che debbano essere i giudici a decidere al suo posto.

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