Del dubbering e altre storie - THC e CBD

Soft Secrets
23 Jun 2017

L’importanza dell’equilibrio fra THC e CBD

Quando a metà marzo, Fabio mi ha contattato proponendomi di approfondire un argomento importante, ho cercato di comprendere meglio cosa volesse raccontarmi e sono volato a trovarlo. Di fronte a un pranzo di squisiti prodotti ittici la conversazione si è svolta genuinamente e già prima dell’antipasto siamo arrivati al dunque: che ruolo riveste l’equilibrio dei cannabinoidi portati a corredo dalla pianta di cannabis nel produrre un effetto proporzionato e piacevolmente soddisfacente? La relazione fra i principali cannabinoidi -THC e CBD- potrebbe giocare un ruolo nella qualità dei derivati prodotti dalla marijuana? In altre parole quanto è importante una pianta con un buon equilibrio di cannabinoidi per ottenere una resina di qualità? Questo ragazzo discreto e appassionato, si è accorto che l’attuale disequilibrio fra THC e CBD che va per la maggiore nelle piante offerte in gran quantità dal mercato, non corrisponde alle proporzioni espresse dalle piante di un tempo e che questo sviluppo comporta delle conseguenze sulla qualità del fumo e derivati in generale. Lo spunto è interessante e abbiamo deciso di coglierlo e condividerlo con la nostra comunità di lettori, perché il consumo, per essere pienamente appagante, deve essere responsabile ed informato. Del dubbering e altre storie - THC e CBD

SSIT: Buongiorno Fabio raccontaci innanzitutto dei tuoi viaggi...

Tutto comincia con il primo viaggio ad Amsterdam. Avevo sedici anni e avevo detto ai miei che sarei andato alle Tremiti e invece ho preso la direzione dell’Olanda.

Come ti ha accolto la città? Cosa hai sperimentato?

A quei tempi, nel 1992, non vi erano tutte le varietà che si possono trovare oggi: c’erano più fumi che erba e la qualità complessiva era superiore all’attuale. Mi ricordo di aver provato fumi importati come i superpollini marocchini, il polline turco, il Manali ed il Kashmir. Da quel primo viaggio è stato un susseguirsi di eventi prodotti dalla mia curiosità su come si potessero produrre queste stimate primizie.

E quando il primo viaggio extra-europeo?

All’eta di 18 anni, il mio primo viaggio in Marocco risale al 1994. Siamo andati nelle montagne del Rif, nel Ketama per imparare il processo di estrazione della resina, l’hashish. Grazie ad un contatto locale, siamo restati ospiti un mese in una fattoria dove si producevano sia cannabis che fumo. Ricordo che in una cantina stavano seccando circa 4 quintali di piante dell’anno precedente, la stanza ne era stracolma. Il concetto è che il fumo per essere buono deve provenire da un’erba curata almeno fra i sei mesi e l’anno, in maniera che la materia prima perda l’odore di weed è acquisti quello proprio dell’hash. Una volta tagliate le piante le lasciavano circa due settimane sotto il sole, poi le trasferivano al buio, dopo di che, passato il giusto tempo, si procedeva al setaccio: si mettevano le cime sopra un pentolo smaltato sul quale applicavano un panno di seta bello teso e poi, dopo aver avvolto il tutto nella plastica per non perdere nulla, le si sbatteva con dei bastoni. A seconda della forza e della velocità con cui si svolgeva quest’operazione la resina veniva più o meno pulita. A questa prima battitura, di miglior qualità, si susseguivano fino a 3-4 battiture successive. Il fumo prodotto in questa maniera era morbido e profumatissimo con un effetto pulito e duraturo, ricordo che il fumo più buono aveva un sapore alpino balsamico. Del dubbering e altre storie - THC e CBD

Dopo il nord Africa dove hai proseguito il tuo studio sulle tecniche di preparazione del fumo?

A 20 anni, dopo 1 anno di stop a causa dell’obbligo militare, sono rimasto per 6 mesi in India e prevalentemente nella valle del Parvati per imparare a fare il fumo con questa tecnica asiatica. A differenza dei marocchini, in India si lavorava sfregando le mani sulle cime fresche appena tagliate, un metodo laborioso perché per fare dai 10 ai 20 grammi di crema, essendone capaci, serviva un giorno di lavoro. Le piante dalle quali si ottiene la charas, che certo non ha bisogno di presentazioni, erano Sative di montagna molto fruttate e tropicali. La crema si staccava dalle mani esclusivamente a strappo, come una ceretta, mentre la charas veniva via meglio sotto forma di rotolini, sfregando le mani tra di loro. Gli effetti di questa pianta erano particolari, ti tenevano veramente su, ti aprivano gli occhi, i colori diventavano più vivi, era un fumare energetico. Ricordo di aver fumato le più buone mentre mi trovavo a 3.000 metri sopra il livello del mare.

Che tipo di piante hai trovato in quella zona del mondo?

Le piante autoctone erano di due qualità: la Jungli e la Begj, la prima dava un fumo duro e asciutto, tipo libanese o marocchino, mentre le seconde producevano un fumo grasso e nero tipo afghano. Ricordo che la resina prodotta da queste piante diventava giallo ambrata e poi rossa, in poche parole, maturava a dovere.

Dopo aver fatto queste esperienze hai continuato a sperimentare anche in Europa?

Certamente, da allora sono passati ventidue anni durante i quali ho perfezionato le tecniche apprese ed ho sperimentato le nuove tecniche d’ estrazione come water hash, dry ice, BHO, alcol etilico, alcol isopropilico, cloruro d’etile, dme, con piante fresche, secche e curate.

E finalmente arriviamo al motivo per il quale ci hai contattati...

Esatto, a partire dal 2000 ho iniziato a coltivare varietà olandesi e californiane e mi sono accorto che il fumo aveva dei problemi di consistenza, quando lo pressavi si sfaldava, un fenomeno che non avevo mai riscontrato prima. In pratica ho riscontrato che le resine non legavano più come una volta, non si riusciva più ad ottenere un ottimo hashish compatto ed elastico (crema di charas) o duro e friabile (super polline marocchino): questo fenomeno, conosciuto con il nome di “buddering” o “budderizzazione” purtroppo al giorno d’oggi è molto diffuso. Del dubbering e altre storie - THC e CBD

Quindi immagino ti sia scervellato per capire cosa fosse successo, se stessi commettendo degli errori...

Certo, ho cercato di documentarmi e confrontarmi con altri hashmaker per riuscire a capire e a risolvere questo problema, ma la maggior parte delle informazioni che ho raccolto sosteneva che la budderizzazione fosse dovuta all’umidità, al trasporto e ai terpeni variabili, spiegazioni che a me non convincevano, perché in passato non sono mai state determinanti per la buona riuscita dell’hashish. Francamente ho sempre pensato che fosse un errore mio, ma confrontandomi con altri appassionati capivo che non ero il solo a riscontrare tale fenomeno, per la maggiore però, come ti dicevo, lo attribuivano alla presenza di umidità. La cosa che mi ha fatto riflettere profondamente è stata che questa problematica si sia verificata in alcune parti del Marocco dove non sono state utilizzate le piante autoctone, poco produttive, ma piante con altre caratteristiche genetiche che garantivano maggiore produttività. Ecco, al momento per tenere insieme il fumo anche in Marocco sembra siano costretti a mantenerlo a bassissime temperature e lo esportano dentro celle frigorifiche come ci hanno confermato alcuni CSC spagnoli.

E come sei arrivato alle tue conclusioni?

Quando ho visto che tale manifestazione si ripercuoteva anche nel Nord Africa ho focalizzato la mia attenzione sulle caratteristiche delle varie piante e nello specifico sui cannabinoidi in esse contenuti. Sono andato a rivedere le tabelle pubblicate nel libro Hashish di Robert C. Clarke dove sono riportati i valori di CBD e THC contenuti nei vari tipi di erbe ed hashish dei vari paesi produttori dal 1969 al 1995. La cosa che mi è saltata all’occhio è che la percentuale e la proporzione dei cannabinoidi di quegli anni è completamente diversa da quelle delle piante di oggi. Prima la proporzione tra CBD e THC era di 1:1 o il CBD era maggiore del THC, adesso invece le proporzioni sono totalmente cambiate e il THC spesso ha un valore sproporzionatamente maggiore rispetto al CBD ( es. 20 THC: 1 CBD). Considerato che lo stato fisico del CBD è un cristallo e del THC un olio liquido, la loro presenza deve essere equilibrata per permettere il loro legame. Questa mancanza di equilibrio fra i principali cannabinoidi, a mio parere, implica che il tricoma ghiandolare non maturi e di conseguenza il fumo non si leghi. La presenza del CBD nelle vecchie razze si può riconoscere dal colore giallo delle ghiandole di resina che a maturazione diventa marrone, nelle nuove razze invece, essendo povere di CBD, il colore delle ghiandole è bianco o trasparente e non cambia, come se il processo di maturazione si bloccasse.

Cosa indica questo cambiamento?

Secondo me l’eccessiva selezione di piante con alta percentuale di THC non ha elevato la qualità delle piante, perché senza l’adeguata presenza di CBD gli effetti sono cambiati, soprattutto la durata dell’effetto non è più la stessa. Questa mancanza di equilibrio modifica quello che prima era un’esperienza più equilibrata e piacevole per l’effetto modulatore del CBD che garantiva un viaggio più duraturo e più naturale, mentre al giorno d’oggi fumando qualità con una ratio ad esempio di 20:1 fra THC e CBD si ottiene l’esperienza di un effetto high più potente però fasullo perché con una durata molto minore che può causare tachicardia o attacchi di panico perché il CBD non regola l’effetto. Io ho iniziato a fare i miei primi viaggi in Marocco ed in India dove ho potuto conoscere e apprendere le antiche tecniche di estrazione e lavorazione della resina della cannabis, parliamo di tradizioni millenarie che sono a grossissimo rischio di estinzione o di sofisticazione del prodotto perché le resine non si comportano più come in passato. Quindi credo sia quantomeno doveroso interrogarsi su questo cambiamento e pensare anche a compiere un passo indietro per riscoprire le vecchie genetiche e ritrovare l’ottima qualità e riuscire a fare un hashish come Dio comanda. di Carlos Rafael Esposito
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