Cannabis e pandemia: il dubbio della filantropia
Noi che siamo nati negli anni ottanta, non siamo certo cresciuti in un paese di filantropi (dal greco antico: φιλία, philía, "amicizia" e ἄνθρωπος, ànthrōpos, "uomo"), ma in un paese in crisi, crisi perpetua.
Cannabis e pandemia. Perché si continua a fare la guerra ad una pianta, la cannabis, che negli Stati Uniti ed in Canada è considerata un bene primario durante la pandemia?
Una crisi che da vent'anni a questa parte è l'indicatore supremo di tutte le decisioni prese dai nostri rappresentanti istituzionali. Crisi economica e del mondo del lavoro prima, ed oggi, prima mondiale del ventunesimo secolo, una crisi pandemica sanitaria globalizzata e globalizzante, che ingloba cioè tutti gli ambiti del nostro vivere, o almeno quelli che non travalicano le ripetute disposizioni della Presidenza del Consiglio. Non è mia intenzione stare ad asserire cosa sia corretto e cosa non lo sia riguardo la gestione delle nostre esistenze pandemiche, e nemmeno confrontarmi sull'arena della decisione sanitaria - chiudere, aprire, zona rossa, gialla, arancione, temperata, rafforzata - quello che, però, mi preme condividere è l'incertezza procurata dall'assistere, da ormai un anno, ad una rappresentazione dell'emergenza sanitaria come spettacolo inesorabile, dove le alternative alla leadership istituzionale sembrano essere stigmatizzate, tutte, nel calderone negazionista. Fra le incertezze che mi colgono più frequentemente la principale nasce dal dubbio di non avere compreso, con il dovuto preavviso, la grandezza di un paese che dall'oggi al domani si risveglia culla di un Rinascimento filantropico. Un paese che secondo la retorica del potere ci costringe a chiuderci in casa per il nostro bene, per filantropia, appunto, una filantropia che ci impone scelte univoche ed invasive, con conseguenze che nessuno può ancora stimare, in termini di collasso economico e redistribuzione del consumo. Conseguenze che sembrano preoccupare meno che la vita dei nostri cari genitori, nonni e parenti anziani. Gli stessi genitori, nonni e parenti anziani che però, durante la propria vita, allo stesso modo che figli e nipoti, non hanno mai sospettato che lo Stato tenesse loro così tanto, tanto, per dirne una, da farli vivere nel paese europeo che ha deciso di proteggere i propri cittadini redigendo un piano pandemico datato 2006 e ricopiato, malamente, sino al 2020. Oppure, tanto da farli vivere in un paese che nel 1980 disponeva di 922 posti letto per malati acuti su 100.000 abitanti e che nel 2016, senza curarsi di futuri disastri pandemici, ma consapevole di avere una popolazione mediamente più vecchia, ne offriva solamente 300 su 100.000 abitanti. Due terzi dell'offerta in terapia intensiva volatilizzati in quasi quarant'anni di paradossale filantropismo. Un paese per altro nel quale, mai, alcun tipo di remora si è concretizzata, ai piani che comandano, per gestire in maniera responsabile lo sviluppo industriale e le sue nefaste provvigioni in termine d'inquinamento climatico, in primis dell'aria, dell'acqua e degli alimenti. Le contaminazioni tossiche uccidono nel nostro paese con tassi molto più elevati di quest'odioso virus, ma a nessuno e mai interessato e a nessuno, è plausibile, mai interesserà. Non c'era spazio per la filantropia nell'epoca dello sviluppo industriale, che sia tornata di moda in questo frangente post industriale, desta un dubbio percettivo profondo. Viviamo, per dirne un'altra, in un paese dove la criminalità organizzata ha compiuto una mutazione strutturale e da avversario si è trasformata in "sparring partner" per poi evolvere in allenatore, in ring ed infine nel Palazzetto dello Sport. A livello politico, però, nessuno ha mai voluto seriamente interrompere questo processo di avvelenamento. Dove sono i filantropi quando si parla veramente - e non con le fiaccolate antimafia - di contrasto ai veri padroni del Belpaese? Gentaglia che contamina e si arricchisce, che avvelena e reinveste, che massacra e capitalizza. Nel libro "Polizie, sicurezza e insicurezze", del già intervistato Salvatore Palidda, l'autore afferma: «La catena di dissimulazione e complicità con le insicurezze ignorate è un fatto politico costruito socialmente al punto da garantire l'illegalismo tollerato, mentre si mobilita l'opinione pubblica contro gli illeciti definiti come intollerabili attribuiti a soggetti sociali considerati nemici della società. Ovviamente, tutto ciò conviene ai dominanti, che così nascondono i loro illegalismi, più gravi di quelli dei cittadini comuni. In altre parole, la negligenza delle insicurezze sanitarie, ambientali ed economiche è sistemica, cioè fa parte della logica economica dominante». Sono i consumatori di cannabis i nemici della società? Chi consuma e produce cannabis durante la pandemia deve essere costantemente sotto lo scacco del contesto penale? Così sembra e per questo vengono repressi per filantropia, per il loro e per il bene di tutti. Ma al di fuori della retorica proibizionista a chi giova la demonizzazione di una pianta che comunque lo Stato produce per fini medici? A chi conviene mantenere la cannabis in un contesto illegale se il suo consumo non è prescritto come terapeutico, sancendo così una discriminante, del tutto artificiale, fra consumo medico e non? Il paradosso di questa filantropia, nel caso specifico del consumo e produzione di cannabis durante la pandemia, ci insegna che chi governa appellandosi a continui allarmismi, sceglie la strada d'incriminare una sostanza e di conseguenza i suoi consumatori, quando invece il nocciolo della questione, non è la problematicità o meno di una sostanza, ma le condizioni nelle quale tale sostanza viene consumata. Queste condizioni sono sempre economiche, sociali e culturali. Un contesto insomma dove il Governo se fosse davvero filantropico potrebbe seriamente intervenire invece di procrastinare la mossa Kansas City di chi dice di guardare da un lato per distogliere l'attenzione su quel che succede dall'altro.