Arruolare la cannabis medica
Dopo anni di politiche oscurantiste e retrograde in materia di droghe, lo Stato italiano ha finalmente deciso di dotarsi di una produzione propria di canapa medicale, da destinare alla produzione di farmaci indicati (e spesso indispensabili) nella cura di patologie neurodegenerative o nella terapia del dolore per i pazienti terminali. La scelta di designare l'Esercito quale effettivo produttore ha però sollevato non poche polemiche e ha fatto sorgere più di un dubbio sull'effettiva bontà del provvedimento bipartisan voluto dalle ministre di Salute e Difesa, rispettivamente in quota Nuovo Centro Destra e Partito Democratico.
Dopo anni di politiche oscurantiste e retrograde in materia di droghe, lo Stato italiano ha finalmente deciso di dotarsi di una produzione propria di canapa medicale, da destinare alla produzione di farmaci indicati (e spesso indispensabili) nella cura di patologie neurodegenerative o nella terapia del dolore per i pazienti terminali. La scelta di designare l'Esercito quale effettivo produttore ha però sollevato non poche polemiche e ha fatto sorgere più di un dubbio sull'effettiva bontà del provvedimento bipartisan voluto dalle ministre di Salute e Difesa, rispettivamente in quota Nuovo Centro Destra e Partito Democratico.
Dopo anni di politiche oscurantiste e retrograde in materia di droghe, lo Stato italiano ha finalmente deciso di dotarsi di una produzione propria di canapa medicale, da destinare alla produzione di farmaci indicati (e spesso indispensabili) nella cura di patologie neurodegenerative o nella terapia del dolore per i pazienti terminali. La scelta di designare l'Esercito quale effettivo produttore ha però sollevato non poche polemiche e ha fatto sorgere più di un dubbio sull'effettiva bontà del provvedimento bipartisan voluto dalle ministre di Salute e Difesa, rispettivamente in quota Nuovo Centro Destra e Partito Democratico.
Curarsi con la cannabis in Italia è una possibilità sancita per legge dal 2006 e praticabile dal 2007, eppure lo scorso anno solo 40 pazienti hanno avuto accesso ai farmaci necessari alle loro cure. Nonostante la richiesta sia altissima – e cresca esponenzialmente con l’aumentare di informazioni ed associazioni per la promozione della cannabis per uso terapeutico –, e nonostante ad oggi quasi la metà delle regioni italiane (Puglia, Toscana, Veneto, Liguria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Sicilia, Umbria) abbia adottato specifiche delibere per regolare la distribuzione e la somministrazione, mancava ancora nel nostro paese una chiara direzione istituzionale in materia di trattamenti a base di cannabis.
A tentare di risolvere l'impasse parlamentare ci hanno pensato il Partito Democratico – nella persona del senatore Luigi Manconi – e i deputati in Commissione Difesa del Movimento 5 Stelle, attraverso un disegno di legge che permettesse di coltivare in modo autoctono la cannabis da distribuire successivamente ai pazienti con gravi patologie tramite le ASL, bypassando così gli alti costi e i tempi d'importazione dei farmaci olandesi. Una proposta di legge bipartisan che ruota sulla possibilità di affidare interamente il processo produttivo alle Forze Armate, che è piaciuta al punto tale da ottenere il plauso di maggioranza e opposizione. E, nonostante i proibizionisti convinti alla Giovanardi abbiano gridato immediatamente allo scandalo, pare che ormai la coltivazione autoctona di cannabis medicale sia orma cosa fatta nel Belpaese.
Nel momento in cui ne scriviamo, non sono ancora stati pubblicati i protocolli ufficiali per l'operatività del processo. Verranno definiti entro il 31 ottobre da un gruppo di lavoro che comprende rappresentanti dei ministeri di Salute e Difesa, dello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, dell'AIFA (l'Agenzia Italiana del Farmaco), dell'Istituto Superiore di Sanità, del ministero delle Politiche Agricole e Forestali, e dai rappresentati di Regioni e Provincie autonome. Nel protocollo congiunto sarà definita la programmazione delle operazioni assieme alla fito-sorveglianza e al calendario delle verifiche periodiche; saranno poi definite le tariffe che i prodotti dovranno rispettare una volta messi in vendita – con tutta probabilità già dal 2015 – e, non ultimo, sarà quantificato il fabbisogno sulla base del bacino d'utenza, ovvero sul numero di pazienti effettivamente autorizzati a curarsi con cannabis medica.
Una volta elaborato dal gruppo di lavoro, il protocollo sulla fase di ricerca e sviluppo del Progetto Pilota, sarà trasmesso al Consiglio Superiore di sanità per ottenere il competente parere in merito alle proposte sullo svolgimento delle attività, sui risultati attesi e sull’appropriatezza prescrittiva, sulle condizioni patologiche che possono essere trattate con tali medicinali, nonché sulle avvertenze e precauzioni d’uso, eventuali interazioni, controindicazioni ed effetti indesiderati.
A coadiuvare i militari nell'istituto fiorentino ci dovrebbero essere poi gli esperti del CRA-CIN di Rovigo, ente pubblico già da tempo autorizzato a coltivare piante di cannabis per scopi scientifici. Da ormai un decennio la struttura rodigina è leader in Italia in questo campo, sotto la spinta del capo ricercatore Giampaolo Grassi – uno tra i primissimi pionieri ad aprire i laboratori alla ricerca sui cannabinoidi per scopi scientifico-farmaceutici –, e in molti si sono domandati: “perché non affidare proprio al centro di Rovigo il ciclo produttivo? ”.
La produzione del principio attivo caratterizzato da un alto livello di salubrità può essere infatti assicurato soltanto dalla collaudata esperienza degli esperti del settore. Tanto è vero che il CRA-CIN svolge la sua attività in ambienti privi di contaminazioni esterne, attraverso apparecchiature sofisticate e, nel caso della cannabis terapeutica, operando con il solo utilizzo di cloni. Stando a quanto affermato congiuntamente dalle ministre nella conferenza stampa dello scorso 5 settembre, la produzione artificiale di cannabis ad uso medicale «deve garantire la standardizzazione del principio attivo, possibile soltanto se si osserva una rigida operatività di tutte le fasi di coltivazione e estrazione». Ma allora perché darla in mano all'esercito?
Pinotti (Pd) aveva dato da tempo il suo ok. Lorenzin (Ncd) è stata più prudente, non solo per un approccio culturale completamente diverso (la ministra si è da sempre detta contraria alla liberalizzazione della cannabis), soprattutto perché le questioni che il suo ministero deve affrontare sono diverse e molto delicate dal punto di vista tecnico. Eppure questa conclusione non sembrava così scontata: si temeva da una parte della maggioranza che si aprissero le porte alla liberalizzazione delle droghe leggere. Ma chiarito che questo (purtroppo) non è assolutamente il caso, l’accordo è decollato. Il ministro Lorenzin ha sempre detto che «dal punto di vista farmacologico, non ci sono problemi all’uso terapeutico della cannabis: nessuno mette in dubbio gli effetti benefici, ma va trattato come un farmaco». Insomma, non si tratta di fumarsi una canna, ma di coltivazione e produzione controllata e monitorata da una struttura appositamente autorizzata: e cosa c'è di meglio e più di controllabile dell'Esercito?
Il ministro della Salute, che si definisce una persona «open minded» e non chiusa in preconcetti ideologici, non accetta che su questa materia si agitino battaglie culturali con l’obiettivo di liberalizzare le droghe leggere. «La mia impressione – ha spiegato – è che in questo Paese non si riesca a parlare di cannabis in termini laici e asettici, senza ricominciare a parlare di liberalizzazione».
Diverso è il caso di agevolare l’uso della cannabis a uso terapeutico, in particolare il ricorso ai cosiddetti farmaci cannabinoidi per lenire il dolore nei pazienti oncologici o affetti da HIV e nel trattamento dei sintomi di patologie come sclerosi multipla, SLA, glaucoma. Perché questo è l’obiettivo che porta alla svolta, secondo le fonti ufficiali, di affidare a una struttura militare la coltivazione della marijuana e la produzione dei farmaci derivati.
Molte diffidenze nei confronti del ministro Lorenzin erano venute da ambienti Radicali e anche del Pd. Era stato detto che la responsabile della Salute frenava, rallentava questa soluzione, che invece aveva visto la sua collega Pinotti subito d’accordo. Il senatore Luigi Manconi del Pd è stato uno dei più critici: rimane ancora diffidente perché vuole vedere se si andrà fino in fondo in questa scelta. Come ricordato sopra, era stato lui a proporre una legge per consentire la coltivazione della cannabis da parte di soggetti autorizzati, come appunto lo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. «In condizioni, quindi, di assoluta sicurezza, ma il ministro Lorenzin ha ritardato nel dare una risposta positiva a fronte di una dichiarazione di consenso da parte del ministro Pinotti».
A quanto pare, dunque, la volontà di produrre canapa medica in proprio è stata dettata solo ed esclusivamente da un fattore di risparmio: eliminare i costi di importazione, abbattere quelli del lavoro (un militare costa decisamente meno di un ricercatore) ed infine contrastare il mercato nero con un prodotto competitivo. Ad oggi, infatti, la maggior parte dei pazienti è stata costretta ad affidarsi a quello trovato per strada: vuoi la maggiore facilità di reperirla, vuoi il costo decisamente inferiore (dai 7 ai 10 euro il grammo, contro i 38 imposti dalla Bedrocan), vuoi il fatto che anche secondo la legge attuale coltivare anche solo una pianta di marijuana in autonomia corrisponde a reato penale.
A tutti gli effetti, comunque, la produzione di cannabis in Italia non è una realtà così concreta come sembrava. Alla luce del termine del 31 ottobre, dal 1 novembre non partirà la produzione di cannabis. Dal 1 novembre, quello che succederà, sarà dare il via alla creazione di un protocollo che sarà successivamente valutato, per un parere, dal Consiglio Superiore di sanità.
Di fronte ai recenti mutamenti a livello globale delle politiche sulla cannabis, come si esprimerà il Consiglio Superiore di sanità? Verranno considerate le tantissime voci internazionali che spingono per un cambio di rotta nelle politiche di contrasto agli stupefacenti, che valorizzino l’aspetto di salute pubblica legato al consumo di cannabis? Al fine di favorire politiche di riduzione del danno, di un puntuale monitoraggio del consumo di cannabis, si avrà davvero il coraggio di cambiare l’approccio, da poliziesco-repressivo a sanitario, attraverso una maggiore attenzione all’individuo e alla collettività?
Una strada per seguire un nuovo approccio politico internazionale nei confronti della cannabis, sarà possibile tema di dibattito nella prossima Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2016. L’ Italia, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della Fini-Giovanardi, ha – grazie alla definizione di un protocollo istituzionale per la produzione di cannabis – uno strumento sperimentale per raggiungere un compromesso, che, senza modifiche della normativa attuale, potrebbe risolvere molti, ma non tutti, i problemi legati alle incarcerazioni legate al consumo, la produzione e distribuzione di cannabis a scopo privato. Se il consumo di cannabis in futuro diventerà finalmente un problema di salute pubblica, più che di ordine pubblico, allora sarà necessario ridisegnare le politiche di riduzione del consumo di cannabis in una prospettiva che eviti la criminalizzazione del consumo una volta per tutte. Ma per arrivare a questo la strada ci sembra ancora purtroppo lunga e colma di ostacoli.
Di tutta questa vicenda, quello che a noi di Soft Secrets pare però il punto più critico, è quello relativo alla formazione della classe medica: che senso ha produrre canapa terapeutica se da sempre sono i pazienti stessi a chiedere di essere trattati con questo tipo di farmaco? Le recenti dichiarazioni del professor Umberto Veronesi in merito all'efficacia della marijuana nella cura di svariate patologie ha certo aperto una breccia nel dibattito medico, ma sono ancora moltissime le resistenze che i medici pongono alla prescrizione di questo medicamento. È un dato di fatto che, nei rari casi in cui viene attualmente prescritta, la cannabis medica è vista come “ultimo tentativo” nel momento in cui tutte le altre terapie chimiche danno prova di aver fallito nella cura della patologia.
Il protocollo e il parere del Consiglio Superiore di sanità, oggi, potrebbero essere lo strumento di riscatto politico dal fallimento tragico della Fini-Giovanardi e del conseguente indulto causato dall’emergenza carceri creata dalle incarcerazioni di massa che quella normativa ha prodotto. Non ci resta che aspettare e vedere se questa nuova politica darà i frutti sperati.
Certo è che con questa manovra bipartisan, il governissimo Renzi è riuscito – con un colpo al cerchio e uno alla botte – a (non) risolvere un'annosa questione, uscendone al contempo lindo e pulito. Producendo canapa terapeutica in modo autonomo si accontentano le istanze “civili” in rivolta contro la preclusione all'accesso ai farmaci, una deriva proibizionista che, demonizzando una pianta, ne negava i benefici; si mantiene lo stretto controllo sulla ricerca chimica farmaceutica in campo di sostanze stupefacenti, affidata da sempre all'esercito; ci si dimostra democratici, semplicemente dando corso ad un diritto che era già in Costituzione dal 1946; si smonta la fragile costruzione della battaglia per il diritto all'autocoltivazione limitato ai malati, un assurdo politico costruito sul niente, perché il diritto, o la libera facoltà, all'autocoltivazione e all'autodeterminazione dei comportamenti privati è cosa che riguarda tutti i cittadini, e che tutti i cittadini devono combattere.
Dal punto di vista della lotta antiproibizionista, questa è però una sconfitta ben mascherata, che ci rallegra solo per quei malati che legittimamente combattevano per un farmaco standardizzato, disponibile, accessibile. L'argomento cannabis terapeutica, altamente inflazionato nei temi antiproibizionisti, non avrà più alcun valore, quando tra pochi mesi potranno andare in farmacia ed averlo, come qualunque altro farmaco. Eppure ci sarebbe ancora molta strada da fare...