Cannabis ai militari: cosa ne pensano i pazienti?

Exitable
25 Feb 2015

Il fatto che lo Stato italiano decida di produrre cannabis per abbassare i costi di importazione, nella stragrande maggioranza dei casi, a carico dei pazienti è certamente un gran risultato.


Il fatto che lo Stato italiano decida di produrre cannabis per abbassare i costi di importazione, nella stragrande maggioranza dei casi, a carico dei pazienti è certamente un gran risultato.

Il fatto che lo Stato italiano decida di produrre cannabis per abbassare i costi di importazione, nella stragrande maggioranza dei casi, a carico dei pazienti è certamente un gran risultato. Insperato solo un anno fa. Davvero un passo avanti. In effetti non sembrava più procrastinabile tale decisione di buon senso, ne prendiamo quindi atto e attendiamo che il protocollo attuativo che dovrebbe sancire le modalità di produzione in accordo tra Ministero della Salute e Ministero della Difesa (presso l’Istutito Chimico Farmaceutico di Firenze) diventi finalmente realtà concreta.

Ma perché lo Stato ha deciso di cominciare a interessarsi alla produzione di cannabis ad uso terapeutico? Per filantropia?

Se devo essere sincero un’opinione me la sono fatta ed ha a che fare con lo sviluppo (più o meno consapevole e più o meno condiviso) dell’idea che alle mancanze dello Stato si possa e si debba reagire sopperendo in prima persona, dove e quando le leggi non riescono, garantendo quelli che per un cittadino sono dei diritti inalienabili, come in questo caso ad esempio, quello alla salute. 

È su questo punto che gli statisti hanno deciso di darsi una mossa perché sembra che nel nostro paese vedere una società civile che si auto-organizza possa destare dal sonno profondo e dal disinteresse totale la nostra classe politica: piuttosto che ammettere che possiamo fare benissimo senza il loro contributo, si sono precipitati a proporre una soluzione che estromette dal gioco tutte le persone che hanno contribuito a percorrere il cammino dell’autoproduzione del farmaco (in solitudine o con altri compagni di viaggio), persone che hanno acquisito un’esperienza diretta sul terreno e che adesso invece di essere valorizzate vengono assolutamente estromesse, a priori e senza nemmeno una consultazione ufficiale. 

Ma perché da tanto fastidio un paziente che coltiva la propria medicina? Hanno davvero paura che un cittadino possa coltivare qualcosa di dannoso? Le tante storie che abbiamo raccolto in questi anni per voi ci dicono l’esatto opposto. È semmai la stasi politica, il contesto che criminalizza questa pianta oltre ogni onestà intellettuale che confina tanti eroi civili – perché questo sono – nell’incertezza dell’ombra.

La situazione comunque è presto detta: in Italia le persone che sono autorizzate a importare cannabis legalmente, che hanno cioè una ricetta e che hanno i soldi per pagarsi il farmaco sono annualmente circa una cinquantina. A parte questi pochi eletti, ci sono migliaia di pazienti che si rivolgono al mercato nero o che hanno piantato in un vaso la loro soluzione. 

Quando i nostri Ministri ci dicono che i tecnici e gli esperti si riuniranno per formulare al meglio un protocollo operativo, perché non includono anche tutti i pazienti che hanno già intrapreso un percorso di produzione? Cosa c’è di più interessante di qualcuno che produce il farmaco e può raccontare gli esperimenti che ha fatto dal punto di vista botanico e soprattutto dal punto di vista clinico? La ricchezza di un’esperienza personale non è da sottovalutare proprio perché in Italia è quello che manca: da noi la cannabis si testa solo su modelli animali ed in laboratorio, ma senza un vero riscontro dei pazienti. 

La loro voce è di fondamentale importanza ed è per questo motivo che l’articolo che leggete vuole ora darvi un’idea di quello che i pazienti italiani pensano.

Partiamo da Valentina che al momento riceve cannabis tramite ASL e ogni 3 mesi paga 1.200 euro per 90 grammi: «Se la produzione in Italia può abbassare i costi per me va benissimo». Basta chiacchiere è tempo di fatti. Concisa ed emblematica.

Walter, invece, che soffre di artrite reumatoide, la prende sull’ironico: «Secondo me si tratta di una “supercazzola alla Amici Miei” e sono fortemente contrario. Vedere una persona in divisa che afferma che la cannabis terapeutica non si può coltivare se non in quelle specifiche condizioni mi fa venire da ridere. Quali condizioni speciali seguiranno mai? Ogni persona è reattiva a seconda della patologia di cui soffre, nel mio caso ad esempio servono le indiche e le kush, insomma erba potente. Ma perché non si può lasciare la possibilità di coltivare per il proprio fabbisogno? Il punto è che dove c’è denaro c’è interesse ad essere protagonisti e c’è tanta gente pronta a fare soldi sulle spalle dei malati. Io ho più di dieci anni di esperienza di coltivazione e so che seguendo la tecnica del Sea of Green potrei produrre piante con le medesime caratteristiche, “standardizzate” come dicono in medicina. Basta avere a disposizione una talea seria e poi per andare avanti, non devi essere Mendel, anche perché ogni volta che hai di fronte una talea sei di fronte all’infinito. Nella vita ho imparato che chi fa da se fa per tre e che se soffri non hai niente da perdere».

Sulla stessa linea anche Marco dall’Abruzzo: «Le ragioni per cui vedo malissimo l'erba nelle mani dei militari sono sovrapponibili a quelle per cui considero una grossa truffa tutto "l'affare THC/CBD": per me quei cannabinoidi servono a poco o nulla se privati del compound di costituenti dell'Indica, in particolare i terpenoidi che, lo ricordo, sono chimicamente dei cannabinoidi e possono legare gli stessi recettori, "purtroppo" però non sono sfruttabili commercialmente. A questo aggiungo che a mio avviso l'erba è un diritto elementare di ognuno, sano o malato, e che credo che debba crescere libera ovunque».

Anche Andrea Trisciuoglio dell’associazione LapianTiamo non nasconde la propria disapprovazione: «Per noi questa decisione è stata un macigno che abbiamo incontrato lungo un cammino già arduo, un vero e proprio sgambetto. Ci hanno anche scippato il termine di progetto pilota che da noi indicava l’unanimità della decisione del Consiglio Regionale pugliese. Il punto è che i Ministri vogliono organizzare questo protocollo i cui destinatari saremo noi malati, ma di fatto siamo esclusi da qualsiasi confronto». 

Massimo da Lucca soppesa pragmaticamente pro e contro: «Certamente è un buon inizio. Però deve essere un impulso, una partenza per poi dare la possibilità anche ad altri attori di coltivare cannabis, perché credo che l’obiettivo finale debba essere l’auto-coltivazione più economica e perché, con tutte le genetiche che esistono, producendo per se stessi si potrebbe ottenere una cura mirata alla propria patologia. Non vorrei che al contrario questo percorso sfoci in un monopolio di fatto. La sensazione è un po' quella di essere stati parcheggiati in un limbo, la politica ha capito che siamo in tanti e che possiamo avere peso e semplicemente non vorrei che facesse rientrare le nostre richieste dentro il gioco delle loro macchinazioni politiche, strumentalizzandoci. Qui in Toscana è appena stata approvata un’ennesima legge però in realtà, nel concreto, l’accesso è tutt’altro che snello e facilitato per noi pazienti».

Su questo punto si ricollega Albeto Sciolari del PIC (Pazienti impazienti per la cannabis), intervistato recentemente dall’Espresso chiarisce: «Nonostante le aperture legislative della Regione Toscana risulta ancora difficile, se non impossibile, ottenere la cannabis per motivi terapeutici. La salute dei pazienti non può dipendere dagli interessi economici delle case farmaceutiche, dalla sensibilità del singolo medico o del ministro di turno. Per questo stanno nascendo i primi Cannabis Social Club italiani a Torino, Genova, Bologna, Pisa, Roma, Bergamo e Napoli. Avranno come soci solo pazienti, con prescrizione medica, riuniti con l'obiettivo di utilizzare la cannabis terapeutica e di coltivarla. Questi gruppi, sostenuti P.I.C., dalla "Rete Italiana antiproibizionista" e speriamo da rappresentanti politici e delle istituzioni, si registreranno come associazioni non profit presso l'Agenzia delle Entrate, dove depositeranno i loro statuti. Il principio fondante dei club terapeutici italiani, unico caso in Europa, rimane quello dello stato di necessità dei singoli malati. Il bisogno di queste persone è costante, perché la malattia non dà tregua. Molti pazienti dei PIC sono morti anche recentemente, non possiamo aspettare ancora che arrivi una legge efficace o che il ministro una mattina si svegli e si convinca che è questa la strada giusta per i malati. Questi club sono la nostra proposta alle istituzioni, vediamo cosa succederà. Noi in particolare siamo un gruppo di malati che lavora per la legalizzazione dei Cannabis Social Club come soluzione al problema dell'approvvigionamento del farmaco. La nostra sarà quindi una associazione di iniziativa politica pienamente legittima».

Anche Stefano Balbo di ACT (Associazione canapa terapeutica) sottolinea il suo punto di vista: «Per quel che mi risulta sembra che a causa della spending review non ci siano soldi per dare concretezza al progetto e che quindi non abbiano ancora mosso un dito, io credo credo che basterebbe un pieno di un caccia F35 per dare cannabis a tutti gli italiani che ne hanno bisogno. L’importante è che facciano come facciano, ma mettano i pazienti nelle condizioni di avere il farmaco a basso prezzo. Basterebbe davvero poco, ma le leggi sono assurde. Ad esempio da 15 anni nel CRA di Rovigo ci sono delle piante madri pronte nei magazzini: i militari potrebbero ritirare le talee e piantarle, a quel momento servirebbe solo che comprassero o al limite affittassero una macchina per gammare le infiorescenze, che cioè le sterilizzino, e saremo pronti. Io mi domando ma è possibile che migliaia di pazienti si sbaglino e siano disposti a rischiare la galera per ottenere la cannabis? Per quel che mi riguarda sono pienamente d’accordo con chi coltiva per necessità e se la legge me lo permettesse anche io preferirei coltivarmela da solo, potrei scegliere una genetica a basso contenuto di THC e ad altissimo di CBD, tipo il Bediol, insomma tipo di cannabis indicato per il mio caso di sclerosi». 

Di sclerosi soffre anche Johnatan che riassume: «Il problema è il sistema che è ipocrita. Di per sé che lo Stato cominci a coltivare è sicuramente una buona cosa perché significa che in un modo o nell’altro si comincia a sgretolare il muro della diffidenza un po' come negli Stati Uniti la marijuana medica sta sgretolando il muro del potere delle case farmaceutiche. Da questo punto di vista quindi io sono favorevole, il problema però resta a monte: io ho problemi ad avere la ricetta stessa, sia che me la faccia un medico generico e in quel caso la cannabis sarebbe a mie spese e già ne ho sostenuto parecchie (dal 2007 al 2008 ho speso in cannabis 13.000 euro) sia che me la prescriva un neurologo specialista permettendomi di usufruirne gratuitamente». 

Il punto è proprio questo possiamo abbassare i costi di questo farmaco, ma se non ascoltiamo il punto di vista dei malati non potremmo mai ottenere un protocollo utile perché basato sui suggerimenti di chi sarà il termine ultimo di tali decisioni. Pensano i nostri esperti ministeriali che sia importante cominciare a produrre per distribuire il farmaco a 50 persone? Che tipo di bacino di utenza si apprestano a servire? Saranno in grado di produrre per migliaia di pazienti? Che si intende fare per insegnare ai medici a prescrivere il farmaco? Non vale la pena cominciare a coltivare lasciando a chi ne è capace la possibilità di uscire alla luce del sole e di poter mettere in rete le proprie competenze? Che fastidio possono dare i Cannabis Social Club, già attivi in Spagna con ottimi risultati, gruppi di persone riunite attorno all’obbiettivo di condividere i mezzi di produzione per raccogliere e distribuire fra loro i frutti del loro lavoro, in un circuito chiuso? 

E mentre queste sono le domande che si pongono i pazienti del nostro paese, sul finire di novembre l’Ufficio Stampa del Ministero della Difesa ci aggiorna: “Il protocollo è ancora in fase di preparazione e non è ancora giunto alla sottoscrizione da parte dei due dicasteri.” 

Beh, buon lavoro alle nostre istituzioni e soprattutto alle persone che le formano e, in primis, ai Ministri Roberta Pinotti per la Difesa e Beatrice Lorenzin per la Salute, sperando che lavorino per il meglio della cittadinanza, seguendo questa e unicamente questa piccola e fondamentale priorità: il malato al centro delle politiche sanitarie, non come obbiettivo passivo ma come stimolo attivo. Per una legislazione sanitaria a sua forma e misura.

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