Ribadire il concetto - La circolare sulla cannabis light non dice in realtà nulla di nuovo
Negli ultimi giorni dello scorso maggio, la notizia che il ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali aveva finalmente regolamentato il mercato della cannabis light era riuscita a galvanizzare gli animi. Una circolare emessa nelle concitate ore della trattativa per formare il nuovo governo gialloverde, avrebbe sdoganato i fiori, rendendo finalmente legale al 100% la coltivazione di cannabis in Italia. Un ultimo regalo della legislatura uscente? A guardare bene parrebbe proprio di no.
Un passo avanti, due indietro. Dopo circa un anno e mezzo dall’entrata in vigore della legge per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa (legge 242/2016), il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MIPAAF) ha ritenuto opportuno fornire con una circolare alcuni chiarimenti applicativi rispetto al mercato dei derivati della canapa. Ci sono voluti i soliti tempi della politica italiana ma le richieste incessanti degli operatori del settore, uno su tutti il celeberrimo EasyJoint, hanno infine portato le istituzioni ad aggiustare - se così si può dire - il tiro.
Appare infatti evidente come tale intervento sia stato mosso in primis dall’esigenza di regolamentare il fenomeno della cosiddetta "cannabis light" che, nell’arco di un anno, ha dimostrato di costituire un fenomeno mediatico, culturale e soprattutto economico. Si parla di circa 1000 nuove aziende - agricole e commerciali - sorte intorno a tale produzione con il conseguente indotto in termini occupazionali ed economici, con un balzo dai 400 ettari di terreno coltivati del 2013 ai quasi 4.000 dichiarati per il 2018 ed un indotto stimato in 40 milioni di euro l'anno.
La circolare, emanata ufficialmente il 22 maggio, si propone quindi di fornire chiarimenti su due tematiche che, a detta dello stesso MIPAAF, rappresentavano delle "zone grigie" della normativa, ovvero il florovivaismo e le infiorescenze. Un annuncio che ha fatto esultare quanti si sono lanciati nel nuovo settore, sebbene permanessero parecchi dubbi sulla liceità del business - le cronache hanno spesso riportato di intere coltivazioni sequestrate, concedetecelo, "ad minchiam" - e che ha riportato sulle home dei principali quotidiani la liceità della cosiddetta "cannabis light".
A guardare bene il testo firmato dall'ormai ex viceministro cattolico Andrea Oliviero, il clamore suscitato dalla notizia pare però, almeno in parte, ingiustificato. Proviamo a leggere insieme la circolare nella sua versione (quasi) integrale - per ovvie ragioni di spazio -, per confermare se effettivamente abbiamo davanti a noi una svolta giurisprudenziale o se invece si tratta solo di ribadire il concetto.
"Le varietà di canapa che la legge n. 242 del 2016 consente di coltivare sono quelle iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 che non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope (...) Ai sensi dell’articolo 2, comma 1, della legge n. 242 del 2018, la coltivazione di tali varietà è consentita senza necessità di autorizzazione "
Si apre così, la circolare: con la conferma che, già da più di 15 anni, la coltivazione di canapa a basso contenuto di THC è permessa senza che venga richiesta una particolare autorizzazione. La legge italiana lo aveva sancito infatti già il 2 dicembre 1997, sempre con una circolare ministeriale - la 734, consultabile in Gazzetta Ufficiale - riguardante quella che allora veniva chiamata "canapa da tiglio". Un nome non certo appealing, che l'ha fatta probabilmente dimenticare ai più.
"Quanto ai possibili usi del prodotto derivante dalla coltivazione, l’articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016 specifica che dalla canapa si possono ottenere:
a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
g) coltivazioni destinate al florovivaismo"
Entriamo nel dettaglio dell'applicazione e vediamo i casi in cui è possibile fare business con la canapa a basso contenuto di THC. Si parla di alimenti e cosmetici, di impieghi agricoli o industriali, di coltivazioni volte alla ricerca e di un non meglio precisato "floriviavismo". Starebbe proprio qui la grande novità della circolare ministeriale: nell'ammissione che una pianta da fiore può essere fatta fiorire anche indoor. Non si spiega altrimenti la scelta di questo vocabolo che, dizionario alla mano, indica incontrovertibilmente la pura e semplice attività di coltivazione di fiori e piante in vivaio. Certo per chi vende il fiore non ci saranno problemi, ma per chi lo compra invece - a meno che non intenda semplicemente annusarlo - vige sempre la legge 309/90 per cui le infiorescenze di canapa con una percentuale superiore allo 0,2 di THC sono sostanze stupefacenti. Il paradosso per cui si può vendere una sostanza che se posseduta è illegale, pare permanere. Ma andiamo avanti.
"Il coltivatore ha l’obbligo di conservare i cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi nonché le fatture di acquisto della semente per il periodo previsto dalla normativa vigente, come stabilito all’articolo 3".
Si menziona qui per la prima volta il vero ed unico destinatario della circolare ministeriale: il coltivatore. Non l'acquirente, non il distributore. Se davvero si voleva regolamentare il mercato, perché non menzionare anche il consumatore, oltre che il produttore? La zona grigia che si voleva diradare qui pare decisamente permanere.
Il tenore di THC delle varietà coltivate non deve superare il limite totale dello 0,2 per cento (...) Ai fini della coltivazione, devono essere rispettati i limiti di THC riportati all’articolo 4, comma 5, della legge n. 242 del 2016, rubricato Controlli e sanzioni. Qualora all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla legge n. 242 del 2016. Si precisa altresì che, in caso venga accertato che il contenuto di THC sia superiore al limite dello 0,6 per cento, l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa."
Arriviamo qui ai limiti di THC imposti per legge, quelli che ora dicotomizzano la cannabis in "light" e "pesante" e che, almeno dal 1997, distinguevano invece tra la canapa che si fuma e il "canapone". Si ribadisce lo 0,2% come massimo stabilito e lo 0,6% come massimo tollerato ma, di nuovo, lo si intende applicato alla produzione e quindi ai coltivatori industriali.
Se dunque un privato volesse coltivare in proprio una pianta di cannabis light, incorrerebbe comunque in perquisizione, sequestro, verbale ed analisi, che probabilmente faranno decadere il procedimento. Nel caso in cui però si superi il limite dello 0,6%, la tutela della 242 non è garantita ed è possibile venire incriminati secondo la 309/90, pur trattandosi di semente certificata. Un'altra innegabile limitazione alla coltivazione della pianta di cannabis.
"Per quanto riguarda, in particolare, le coltivazioni destinate al florovivaismo, si specifica che:
1. È consentita la riproduzione di piante di canapa esclusivamente da seme certificato.
2. Non è contemplata la riproduzione per via agamica di materiale destinato alla produzione per successiva commercializzazione di prodotti da essa
3. Secondo quanto disposto dall’articolo 3, della legge n. 242 del 2016, il vivaista deve conservare il cartellino della semente certificata e la relativa documentazione di acquisto, per un periodo non inferiore a 12 mesi, e, in ogni caso, per tutta la durata della permanenza della semente stessa presso l’azienda vivaistica di
4. La vendita delle piante a scopo ornamentale è consentita senza autorizzazione.
5. L’attività vivaistica è altresì regolamentata dagli articoli 19 e 20 del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 214, in attuazione della Direttiva 2000/29/CE concernente le misure di protezione contro l’introduzione e la diffusione nella Comunità di organismi nocivi ai vegetali o ai prodotti
6. Le importazioni a fini commerciali di piante di canapa da altri paesi non rientrano nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016 e, in ogni caso, devono rispettare la normativa dell’Unione europea e nazionale vigente".
Qui, con la ratio di garantire la tracciabilità fino al seme, viene vietata tout court la possibilità di riproduzione per via agamica (es. per talee) ai fini della loro commercializzazione e, soprattutto, la possibilità di acquistare talee per ottenere prodotti da essa derivati. Sta forse qui la vera forza della circolare del MIPAAF: nel tagliare fuori la concorrenza, soprattutto quella Svizzera, e nel ribadire che l'autocoltivazione è un reato.
Si specifica poi finalmente cosa si intende con "florivivaismo" ma, di nuovo, non si va oltre la specifica di uno "scopo ornamentale". Il consumo umano per combustione, il vero utilizzo della tanto pubblicizzata "marijuana light" non viene assolutamente menzionato, lasciando il consumatore reale in balia della stessa ambiguità legislativa vigente prima della circolare, della legge 242/2016 e in generale da quando il referendum del 1993 sulla depenalizzazione è stato disatteso.
Non possiamo quindi non dare un giudizio negativo su quest'ultimo tentativo di legiferare in Italia in materia di cannabis. Questa circolare, come le altre che l'anno preceduta, non dice in realtà nulla che non sia stato assodato già nel 1997 e soprattutto ribadisce l'assunto secondo cui, la coltivazione della pianta di cannabis - anche la cosiddetta "light" - è cosa da lasciare in mano ad esperti ed operatori del settore, non certo ai privati cittadini.
Vogliamo davvero chiamarla una vittoria dell'antiproibizionismo?
Giovanna Dark
S
Soft Secrets