American Marijuana: cosa cambia quando la cannabis diventa legale?
Niccolò Moronato è Docente in Design della Comunicazione (linguaggio e copy-writing) al Politecnico di Milano. Da due anni stabilmente a Chicago, lo scorso 20 aprile è intervenuto durante l’evento del 420 Cannabis Day raccontando la sua esperienza negli Stati Uniti. Il focus dell'intervento era l'Illinois, Stato americano in cui la cannabis diventa legale nel gennaio 2020. In questo Stato del Midwest il mercato della cannabis, nel corso del 2020, ha generato la cifra di 669 milioni di dollari, 3.2 milioni registrati solo il primo giorno di vendite.
Quando la cannabis diventa legale che succede? Una storia d’erba a stelle e strisce. Dal futuro.
Al di fuori però della dimensione puramente economica, quali sono gli scenari che si aprono quando la cannabis diventa legale? Come si sviluppa la relazione fra cittadinanza e questa pianta per oltre mezzo secolo ritenuta illegale ed associata a comportamenti devianti? Come reagisce una società consumistica come quella statunitense alla nascita di un nuovo segmento di consumatori ormai legittimati? Come risponde il mercato a questo interrogativo?
Nel corso dell'intervista che segue abbiamo avuto la sensazione di offrire ai nostri lettori un esercizio di cronaca dal futuro. Ne è davvero valsa la pena.
Come si vive in una città come Chicago dove la cannabis diventa legale?
Chi dovesse passare per la nostra via vedrebbe due bellissime piante, grandi e verdi, affacciarsi alla finestra. Senza destare nessun allarme. Si vive che all’aeroporto, dopo la security – quindi in territorio federale – la città ha posizionato delle Cannabis Amnesty Box, dove puoi lasciare il tuo medicamento senza essere incriminato di niente. Si vive che fino al giorno prima della legalizzazione la polizia, nelle stazioni del metrò, lasciava ancora per terra bustine con dentro una cima per poi arrestare, pochi metri più avanti, l’allocco o il disperato che la tirava su. Poi basta. Pum. Sparito tutto. Ora fanno la guardia fuori dai dispensari, perché il business – essendo legale solo a livello statale - è ancora tutto cash-only. Infatti ogni tanto qualche dipendente con tutto quel cash scappa pure via.
Rispetto alle altre leggi americane come considera quella dell’Illinois?
La legge dell’Illinois (che si legge senza pronunciare la “s”) è fatta bene, ma non benissimo. Non si può fumare all’aperto, ad esempio, anche se è largamente tollerato. Questo significa che molte categorie, specialmente giovani e persone di colore, possono ancora essere bersaglio delle politiche repressive degli ultimi decenni, dove il fatto di stare fumando in giro funziona come pretesto per arrestare, incarcerare, sfruttare e segregare esseri umani. In generale, però, è un enorme passo avanti – nella vita quotidiana e soprattutto per le persone che ancora non conoscono la canapa o non ci si trovavano bene, perché la legalizzazione ha dato supporto, innanzitutto, alla normalizzazione della canapa, un fenomeno commerciale, culturale e soprattutto linguistico che ha svincolato la pianta e la lotta per la sua legalizzazione dall’immaginario dello “stoner” che fuma. Questa normalizzazione ha portato la canapa in forme e dosaggi diversi [nda. per noi ancora inimmaginabili] nelle case di tantissime persone altrettanto inimmaginabili: il dirigente d’azienda, la nonna, il poliziotto, l’atleta, il veterano, etc.
Cosa intende per fenomeno della normalizzazione della canapa come atto culturale e soprattutto linguistico?
Se partiamo dall’aspetto di pressione politica ci accorgiamo che i gruppi per la legalizzazione della cannabis nell’Illinois, come negli Stati Uniti, non usano molto la parola legal, ma preferiscono normal ed infatti si chiamano Norml. Già questo spiega molto di quello che è il registro adottato per questo tipo di campagne. L’interesse non è quello di essere legalizzati, ma far capire che è normale.
La normalità è un concetto spesso ambiguo e problematico, cosa intende in questo caso?
Far capire che è normale, significa che non ci si trova di fronte ad un mercato verticale, dove si hanno solo i fiori, le resine, i concentrati, gli estratti e cioè i prodotti associati al consumatore classico che ha iniziato con le canne e con quelle finirà perché quello è il suo modello e quello è l’effetto ricercato. Al contrario qui, anche grazie all’industria dell’estrazione, la canapa s’inserisce a tutti i livelli della produzione industriale, partendo da quella alimentare, per arrivare al tessile ed alla cosmetica e a tutti i settori, insomma, dove i cannabinoidi o la canapa possono aiutare. Questo significa che la nonna, se ha un problema di dolori, non va verso la canna e non viene indirizzata verso la canna, ma piuttosto verso un prodotto che al suo interno ha un cannabinoide. Questo processo ovviamente abbassa tantissimo l’ostacolo ideologico.
Ed in questo processo di normalizzazione che ruolo ha giocato il design?
Il design si è allontanato dalla foglia, dal rasta e dallo "stoner" ed ha creato un discorso visivo-linguistico a partire dai bisogni delle persone e non più partendo dalla volontà di rendere la cannabis legale. Al contrario si parte dalla domanda, tu come stai? Come hai voglia di sentirti? La risposta è che, probabilmente, un prodotto con dentro un cannabinoide fa al caso tuo. Tutto senza bandiere della Jamaica, senza foglie di cannabis e senza quell’impressione di entrare in un coffeshop di Amsterdam. In questo senso il linguaggio visivo della normalizzazione è alternativo, perché non parte dall’assunto classico che deve convincere il prossimo del perché la ganja vada bene o del perché la ganja non sia un problema, o del perché tolga i soldi alla mafia. Al contrario, il processo di normalizzazione parte dall’esperienza delle persone ed in base a questa propone la modalità più adatta di cannabinoidi. Rispetto allo strappo, alla cesura rappresentata dall’insistere sulla canapa solo come sostanza, l’inserimento all’interno della vita quotidiana, in questa maniera, è molto più fluido.
Quando la cannabis diventa legale proliferano i negozi specializzati, i dispensari. Cosa si trova in questi negozi?
Quando entri in un dispensario, la scelta e la cultura riguardo la pianta sono talmente ampie che scegliere un fiore diventa un’esperienza simile ad assaggiare o comprare un buon vino o un olio pregiato. Certo questo significa che la ganja legale è sempre più un prodotto di lusso, o “gentrificato”, ma è anche vero che la legalizzazione permette a ciascuno di viverla come vuole – ad esempio, per l’“erba di ogni giorno” possiamo coltivare un certo numero di piante, che ci permette di avere quantità sufficienti per cucinare o preparare dei drink, invece che essere costretti soltanto e sempre a fumare. Un po’come ho visto fare in Jamaica con la canapa sacramentale, regaliamo il surplus ai vicini come pratica di comunità – e qui il vicino ringrazia commosso, non chiama la polizia.
Quali sono le modalità di assunzione che vanno per la maggiore?
Tra gli habitué sicuramente il vape, percepito come un’alternativa meno nociva del fumo tradizionale, o altrimenti il fiore di qualità (una qualità che non ho mai incontrato in Europa) e gli edibles, con alcune pasticcerie e panifici che hanno iniziato a specializzarsi su cocktail (analcolici), dolci e pizze “infused”. Tra i nuovi consumatori invece vanno molto i topicals (creme, unguenti) e le capsule/pillole di THC, spesso preparate in combinazione con altre erbe (“entourage effect”, molto ricorrente) per ottenere differenti effetti, dal più rilassante al più energizzante. In generale il micro-dosing è stata la chiave di tutto, iniziando a ragionare per milligrammi di THC e non per “numero di canne”. Nelle stesse aziende molte persone ricorrono a piccoli rimedi per sedare l’ansia lavorativa e migliorare la concentrazione, come le “Go drops”. Io stesso, che ho una tolleranza notevole, ne traggo beneficio e devo dire che ha un bellissimo influsso sulla mia produttività da quando, per motivi di salute, ho dovuto abbandonare il mio amato caffè.
Oltre a quelli citati, fra tutti gli edibles vedete emergere qualche prodotto interessante?
Il “futuro” sembra essere quello dei drinkables. Già da anni gli Americani cercano sugli scaffali o nei menù opzioni gustose e divertenti di drink che siano alcohol-free (il cosiddetto “club soda movement”). Le aziende sono pertanto riuscite a distillare o fermentare birre e superalcolici ottenendo prodotti esattamente identici agli “originali” ma senza alcol. Da lì, il passo per aggiungere il THC o un mix di cannabinoidi è stato molto breve. Già sugli scaffali dei supermercati si trovano normalmente le bibite arricchite con il CBD mentre il frigo è diventato l’angolo più interessante di ogni dispensario. Se ci si pensa, ha senso – non sempre a una festa o in un locale il fumo è benvenuto e se vuoi comunque entrare in sintonia con gli altri senza però bere alcol, sorseggiare THC può essere finalmente l’opzione per tantissime persone. È bello essere in una società che non è più mono-sostanza. È bello poter scegliere.
Che ruolo svolge la modalità di consumo sulla percezione che la gente ha dei consumatori di cannabis?
Avere più di un modo per poter godere dei benefici della canapa è stata la chiave di volta del cambiamento sociale e legale che c’è stato. Fondamentalmente ha permesso a tutti di poter essere curiosi e la curiosità è il miglior antidoto contro il pregiudizio. Sempre più persone hanno avuto modo di trovare la modalità e la quantità giusta di THC per loro, applicandolo in momenti della giornata lontanissimi dal classico momento di consumo della “canna”. Certo, poi, l’immaginario classico della canapa è ancora forte e radicato, ma moltissimi brand, sia di THC che di CBD o Delta-8 THC (questi ultimi tuttora “ignorati” dalla legge), hanno smesso da tempo di utilizzare simbologie che riportino a quel tipo di esperienza e contesto (la foglia, il fumo, il rasta), preferendo sviluppare design e comunicazioni più inclusive, universali e concentrate sul rispondere a bisogni precisi delle persone. E come conseguenza sempre più persone hanno in casa almeno un prodotto contenente cannabinoidi. Per cui, a livello di pregiudizio generale, è sempre più difficile sostenere che chi fuma o fa uso di THC sia un fallito destinato a non combinare niente o un potenziale criminale. Ironicamente, il pregiudizio più forte lo hanno i “duri e puri” della cannabis, che considerano ogni altro cannabinoide che non sia THC da fumare come “p**sy weed”.
Incredibile questo paradosso. Come lo interpreta?
In generale ogni cultura, ed in particolare quella stoner, è fondamentalmente un set di abitudini e rituali costituiti e ripetuti. Il rituale del fumarsi la canna, costituito e ripetuto, è fortissimo, ma non è adatto a tutti.
Crede che la pandemia abbia influenzato il consumo e le modalità di assunzione di cannabis?
Tantissimo. Considera che qui a Chicago il THC ricreativo è diventato legale il 1 gennaio 2020: appena in tempo. In America le misure di “stay at home” non sono mai state dei veri e propri “arresti” domiciliari come in Italia, ciononostante l’impatto sulla salute mentale delle persone è stato durissimo. La canapa ha aiutato tantissime persone a non dover passare tutto questo tempo attaccati alla bottiglia o agli ansiolitici. Personalmente, ringrazio il cielo ogni giorno di aver potuto passare questo periodo in un “legal state” e di aver avuto il modo di poter sperimentare moltissimo con la coltivazione domestica (mia moglie è un medical patient col pollice verde), le ricette, o semplicemente poter scegliere e non trovarsi sempre e comunque a bere. Intanto, al dispensario vicino casa c’è sempre una coda di almeno 50 metri. Ogni giorno a ogni ora. E così, dopo solo un anno, le tasse incassate in Illinois per la marijuana hanno già superato quelle per l’alcol.
Come è percepito il consumo di cannabis nello spazio pubblico? Ancora stigmatizzato o tollerato senza problemi?
Chiaramente parliamo di fumare, perché le altre modalità di consumo sono “invisibili” al pubblico. Per rispondere a questa domanda bisogna prima fare due premesse: la prima è che in questi anni di pandemia, in cui gli Americani si sono trovati “costretti” a stare all’aperto invece che chiusi in locali con l’aria condizionata, la polizia ha chiuso un occhio sul consumo di sostanze all’aperto. Alcol o THC, “basta che non rompi”. La seconda è che lo spazio pubblico per un americano (ad eccezione di New York) non è quello a cui siamo abituati nell'Europa meridionale. Le piazze, le promenades e tutto quello che noi consideriamo come spazio urbano “libero” qui sono soltanto zone di consumo con vista, pieni di ristoranti e bar, dove gli unici posti in cui la gente staziona sono, appunto, i tavolini dei locali. In generale, quindi, la gente in città non si ferma mai “a caso”, come facciamo (orgogliosamente) noi. Lo spazio pubblico qui coincide con la natura: i parchi, il lungo-lago, la spiaggia. Tecnicamente a Chicago non è permesso fumare all’aperto, ma nella realtà basta usare la stessa accortezza ed educazione che si userebbe per una sigaretta: lontano dai bambini, no alle fermate del bus, insomma cercando di non dare fastidio. Comunque non ti devi più nascondere, andare a cercare posti introvabili per poterti rilassare un po’. Infatti il profumo di marijuana si sente un po’ ovunque in città, fino all’ingresso dell’aeroporto. In realtà, il profumo è un segno distintivo di tolleranza e accettazione del prossimo e passeggiare fumando è una cosa all’ordine del giorno.
Per concludere questo incontro con il futuro, speriamo prossimo, in cui la cannabis diventa legale, le andrebbe di fare un confronto fra l'America e l'Italia nell'anno 2021?
Gli Stati Uniti sono un punto di osservazione privilegiato perché permettono di lavorare nell’attualità di un’industria dinamica e creativa, in Italia, invece, il proibizionismo sta letteralmente negando un’opportunità lavorativa concreta ad un’intera generazione.