Ricerca cercasi

Soft Secrets
06 Jan 2018
Gli scorsi 27 e 28 settembre, alla Reggia di Venaria nei pressi di Torino si è svolto il G7 della Scienza. Sul tavolo, come da programma anche la cannabis. Ma a che punto è la ricerca scientifica sulla cannabis in Italia? Possiamo davvero chiamare la cannabis “farmaco” a tutti gli effetti in un paese che la tratta ancora come placebo?    di Giovanna Dark Secondo la celeberrima Enciclopedia Treccani per “ricerca scientifica” s’intende “l’insieme delle attività destinate alla scoperta e utilizzazione delle conoscenze scientifiche. Essa comprende sia la ‘ricerca fondamentale’, lo studio sistematico della natura e delle sue leggi a fini puramente conoscitivi a prescindere da scopi immediatamente pratici, sia la ‘ricerca applicata’, volta invece a individuare e sperimentare le possibili applicazioni pratiche delle conoscenze acquisite, sia infine l’attività di sviluppo, legata alla produzione su scala industriale delle innovazioni tecnologiche”. Di origine più recente, legata all’intervento pubblico nel settore, è la “ricerca finalizzata” che indica un’attività di studio orientata “secondo determinate priorità senza essere immediatamente legata a scopi pratici”. Ed è proprio quest’ultima che nel 1961 portò le Nazioni unite, nel bel mezzo della Guerra Fredda, ad adottare la “Convenzione unica sugli Stupefacenti”. Il preambolo di uno dei primi documenti internazionali adottati in sede ONU segnala la preoccupazione degli Stati “per la salute fisica e morale dell’umanità” riconoscendo che “l’utilizzazione medicinale degli stupefacenti permane indispensabile per alleviare il dolore”, stabilendo che “devono essere adottate [misure] per assicurare che gli stupefacenti siano disponibili a questo scopo” pur riconoscendo che la tossicomania rappresenti una “grande calamità per l’individuo” e costituisca un “danno economico e sociale per l’umanità”. Uno tra i primi documenti adottati dalle Nazioni Unite parla quindi chiaramente di benessere e salute dell’umanità, facendo un chiaro riferimento all’uso medico delle cosiddette “droghe” (che in inglese può voler dire “medicine” oltre che “stupefacenti”). Nell’affermare quanto da millenni comunque avveniva in tutto il mondo, l’ONU avocava a sé “la competenza in materia di controllo degli stupefacenti”, promuovendo “l’utilizzazione degli stupefacenti per scopi medicinali e scientifici” attraverso una “durevole cooperazione internazionale per realizzare questi principi e per raggiungere questi scopi”. Nel 1961 finiva il Piano Marshall, John Fitzgerald Kennedy dava il via libera all’invasione di Cuba e Yuri Gagarin segnava il primo punto per l’URSS nella corsa allo spazio. Nel bel mezzo delle Guerra Fredda al Palazzo di Vetro si concordava che la presenza delle piante medicinali e dei loro derivati dovesse esser garantita a livello globale. Negli ultimi 56 anni, purtroppo, le cose per le “droghe”, la cannabis in primis hanno preso una brutta piega un po’ ovunque: gli stati membri dell’ONU, USA in primis, hanno privilegiato la parte della Convenzione che prevedeva che l’uso non medico-scientifico delle piante e loro derivati potesse esser ritenuto reato, lanciando una “guerra alla droga” che, col passare degli anni è diventata una vera e propria guerra contro le persone. Il diritto penale ha schiacciato la promozione della ricerca su papavero, canapa, foglia di coca e sostanze derivate, raffinate o prodotte chimicamente, riempiendo le carceri di tutto il mondo, aumentando rischi e danni connessi anche al semplice consumo e creando la categoria del “drogato” come figura socialmente deviante per eccellenza. Dal 2007 in Italia i medici possono prescrivere preparati contenenti sostanze attive vegetali a base di cannabis per uso medico che devono esser preparate da farmacisti in strutture preposte. Come previsto dalla convenzione del 1961, la sostanza attiva si ottiene dalle infiorescenze della cannabis coltivata dietro autorizzazione di un organismo. La possibilità di un uso medico delle sostanze “controllate” in realtà già prevista dal Testo Unico sulle droghe 309 del 1990 ma lo stigma associato alla “droga” ha fatto sì che nessuno in Italia si sia azzardato a proporre o tantomeno finanziare ricerche sperimentali sulle proprietà mediche della cannabis. Eppure, in quegli stessi anni ‘90, e per via popolare, nella patria della guerra alla droga si iniziava a legalizzare la cosiddetta marijuana medica per aiutare persone affette da glaucoma o in cura chemioterapica. Inizia la California nel 1996, seguono Alaska e Washington nel 1998; a novembre 2016, con le ultime tornate referendarie, sono 29 gli Stati USA che consentono la prescrizione medica di cannabis e suoi derivati. Anche se la marijuana, a differenza nostra, resta una pianta proibita a livello federale, milioni di ricette made in USA son state scritte negli ultimi 20 anni in virtù del I Emendamento della Costituzione – quello che onora la libertà di espressione, in questo caso del medico. In Italia, dal 2007, si possono importare legalmente: Bedrocan, Bediol, Bedrobinol, Bedica e Sativex – i primi dai Paesi bassi e l’ultimo dal Regno unito, mentre, in virtù di un accordo firmato tra i Ministeri di Salute e Difesa a settembre del 2014, le infiorescenze per le preparazioni galeniche possono esser prodotte su suolo patrio esclusivamente dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze dove, dopo una fase sperimentale di un paio d’anni, dall’inizio del 2017 sono stati raccolti circa 200 chili di una varietà di cannabis chiamata FM2. Come previsto dal Decreto Ministeriale del 9 novembre 2015, la prescrizione di cannabis a uso medico in Italia è limitata al suo impiego nel dolore cronico e in quello associato a sclerosi multipla oltre che a lesioni del midollo spinale; alla nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per HIV; come stimolante dell’appetito per i pazienti oncologici o affetti da AIDS e nell’anoressia nervosa; l’effetto ipotensivo nel glaucoma; la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette. Non trattandosi però di farmaci riconosciuti, le prescrizioni si effettuano solo quando le terapie convenzionali risultano inefficaci. Il processo di registrazione dei farmaci in Italia è garantito dall’Agenzia Italiana per il Farmaco (AIFA) secondo le procedure previste dall’incrocio tra la normativa nazionale e quella europea garantendo tracciabilità che, tra altre cose, per statuto garantisce “unitarietà all’assistenza farmaceutica nel territorio nazionale” e “accesso ai farmaci innovativi e ai farmaci per le malattie rare”. L’AIFA, in collaborazione con la Commissione Tecnico Scientifica e gli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità “attraverso valutazioni chimico farmaceutiche, biologiche, farmaco-tossicologiche e cliniche provvede ad assicurare i requisiti di qualità, sicurezza ed efficacia di tutti i medicinali”. Per registrare una medicina, oltre a quanto sopra ricordato, occorrono le prove che questa in effetti produca qualcosa in più dell’effetto placebo e le evidenze di “sperimentazioni cliniche” che consolidino l’ipotesi terapeutica. I trial devono essere portati avanti con tutti i crismi in termini di soggetti coinvolti, tempi e metodologie di sperimentazione per riuscire a dimostrare come l’impiego di determinate sostanze possa in effetti portare benefici per la salute individuale. Ma una sperimentazione clinica seria può arrivare a costare milioni di euro e l’Italia, si sa, ha le tasche cucite quando si tratta di ricerca. A corredo dei vari decreti che negli anni si sono succeduti nell’obiettivo, ormai pienamente raggiunto, di consentire la prescrivibilità dei cannabinoidi il Ministero della Salute ha sempre infatti allegato una letteratura scientifica internazionale. Esistono alcuni studi in italiano ma compilano quanto prodotto altrove, nella speranza che “chi di dovere” sappia leggere l’inglese. Per ovviare a questa situazione, durante il G7 della scienza che si è tenuto a fine settembre, tra le altre cose, si è voluto invitare le Ministre della Salute, della Ricerca e della Difesa a promuovere e finanziare studi su quanto prodotto a Firenze, oltre che avviare dei trial clinici per ampliare la condizioni per cui i cannabinoidi possano essere prescritti.
Occorre infatti colmare la lacuna che esiste tra le talee che a Firenze producono l’FM2 e la mancanza di studi che ne comprovino, in modo indipendente, l’efficacia – magari suggerendo la produzione di quantitativi maggiori. L’eccellenza della cannabis “made in Italy” non può limitarsi alla qualità del processo produttivo ma deve anche puntare sulla ricerca e sulla conoscenza della pianta e le sue proprietà. Bisogna analizzare quanto raccolto ed elaborato per avviare l’iter affinché (almeno) l’FM2 venga registrata come vero e proprio farmaco riconosciuto dall’AIFA. Per registrare un farmaco o classificarlo come inutile o dannoso, non occorrono atti di fede o petizioni di principio, serve fondamentalmente la ricerca empirica.   Tutto sarebbe possibile già oggi, senza dover mettere nuovamente mano a un quadro normativo a cui in molti paiono interessarsi ma a cui pochi si dedicano con genuini slanci riformatori. Certo la normativa vigente merita interventi strutturali. Non si capisce perché debba esistere un monopolio pubblico in mano all’Esercito, né perché si multino le farmacie che fanno pubblicità dei prodotti a base di cannabis o si debbano tassare i cannabinoidi con IVA al 22% piuttosto che al 10%. Se davvero si avessero a cuore le sorti dei pazienti italiani e il rispetto dell’articolo 32 della Costituzione che sancisce il diritto alla salute, basterebbe limitarsi per il momento alla predisposizione di studi e sperimentazioni pubbliche e private. Almeno quelli che potrebbero far diventare la “cannabis di stato” FM2 un farmaco a tutti gli effetti.   Certo occorrono investimenti, come c’è bisogno di programmi per la formazione di tutti i soggetti e gli operatori coinvolti, oltre che una corretta informazione del pubblico. E anche per quanto riguarda la parte ludica della fruizione, non esistono veri effetti collaterali negativi alla ricerca scientifica sulla cannabis o a sperimentazioni cliniche che la utilizzano. Crediamo che studiare la cannabis per registrarla come medicina risolverebbe tutti i mali? Sicuramente no. Ma di certo crediamo i patimenti e le sofferenze di migliaia (forse milioni) di persone, così come i costi legati alle cure, potrebbero drasticamente diminuire.
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