Quando la droga uccide

Soft Secrets
23 Jan 2017
Storie di abusi, omicidi e suicidi nel quotidiano proibizionismo italiano Novembre è riconosciuto come il mese dei morti, un mese in cui ci si ricorda che anche e soprattutto a chi non c'è più, bisogna portare gran rispetto. In questo numero, dopo le ultime e sconcertanti dichiarazioni della magistratura in merito al caso di Stefano Cucchi, abbiamo deciso di accantonare per un attimo sentenze, proposte, e cavilli burocratici per concentrarci su quelle che sono le tragiche conseguenze della legge stessa. Lo scorso 3 ottobre, i periti giudiziari del processo voluto da Ilaria Cucchi per fare luce sulla morte del fratello, hanno affermato davanti ai giudici che la morte di Stefano è da attribuire ad un violento attacco epilettico. Un evidente, nonché ennesimo colpo di spugna per cercare di nascondere sotto al tappeto le responsabilità del sistema Stato nella morte di un detenuto preso in custodia. Negli anni purtroppo, diversi episodi come questi hanno caratterizzato le cronache nostrane. Storie di abusi, di violenze e di morte provenienti da un luogo che fa della protezione la sua funzione principale. Peccato che in Italia esistano due pesi e due misure soprattutto in merito alla giustizia e che se sei etichettato dalle forze dell'ordine come “tossico”, le probabilità che tu esca dal carcere illeso sfiorano lo zero. C'è infatti un odio quasi atavico che gli sbirri (passatemi il termine) sembrano covare nei confronti dei detenuti per reati legati alla droga. Un odio che può definirsi politico nella misura in cui colpisce statisticamente di più i consumatori di marijuana; ovvero l'equivalente della zecca comunista, nell'immaginario tanto caro agli uomini in divisa. Quando la droga uccide 2 Prima e dopo Stefano, purtroppo ce ne sono stati tanti altri. Quello che segue è solo un piccolo elenco che ho messo assieme guardando indietro nelle cronache degli ultimi 10-15 anni. + Stefano Cucchi, 31 anni, muore il 22 ottobre 2009 nel reparto detentivo dell’Ospedale “Sandro Pertini” di Roma, dopo essere passato per il Tribunale, il carcere di Regina Coeli e l’Ospedale Fatebenefratelli. Otto giorni fatali durante i quali la famiglia ha tentato invano di mettersi in contatto con il proprio caro e con i medici che lo avevano in cura, in barba alle tutele che per legge e per convenzioni internazionali sono garantite alle persone in stato di fermo. + Federico Aldrovandi, studente ferrarese di 18 anni. Il 25 Settembre 2005 una volante sarebbe stata avvertita da una donna preoccupata dalla presenza di un ragazzo che, forse, camminava in modo strano, forse cantando. Quando arrivò la volante seguì una collutazione. All'arrivo sul posto il personale del 118 trovava il paziente “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena, era incosciente e non rispondeva". Il giovane morì sul posto. Secondo un'indagine medico–legale dall'esame autoptico la causa ultima di morte sarebbe stata “un'anossia posturale”, dovuta al caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l'immobilizzazione. I tribunali, su insistenza della formidabile mamma Patrizia, hanno perseguito i suoi 4 assassini in divisa ma oggi, 11 anni dopo, questi sono tutti nuovamente al loro posto. + Manuel Eliantonio, 22 anni, muore il 25 luglio 2008, nel carcere Marassi di Genova, coperto di lividi e di segni di violenze, ufficialmente dopo aver inalato del gas butano. Stava scontando una condanna a 5 mesi per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. La sua pena avrebbe dovuto terminare il 4 settembre ma, come accaduto a Federico, l'etichetta da tossico affibbiatagli dalle forze dell'ordine è stata un'evidente scusante (ed un alibi avallato dalla magistratura) per assassinarlo impunemente finché era in custodia. + Aldo Bianzino, 44 anni, muore il 14 ottobre 2007, nel carcere “Capanne” di Perugia, dove era detenuto da meno di 48 ore a seguito del ritrovamento nel suo guardino di alcune piante di marijuana e di 30 euro in contanti: tanto bastò alle autorità per definirlo come pericoloso spacciatore. L’autopsia fece risalire le cause della morte a un aneurisma cerebrale ma. Incensurato, pacifista, di professione falegname, lascia la moglie, anch'essa imputata e che morirà di lì a poco, e un figlio, Rudra, ora diciassettenne, senza più una famiglia e con pochissimi mezzi a disposizione per poter chiedere pubblicamente la verità sulla morte di entrambi i suoi genitori. + Stefano Frapporti, 50 anni muore suicida il 21 luglio 2009 nel carcere di Rovereto (TN). Era un muratore provetto e stimato dalla sua comunità. Con la legge non aveva mai avuto problemi, fino a quando una pattuglia di Carabinieri lo ferma, contestandogli una manovra errata in bicicletta. Questo porta inspiegabilmente alla perquisizione della sua casa, dove le forze dell'ordine trovano dell’hashish e un'ottima scusa per arrestarlo. Il giorno stesso viene rinvenuto morto, impiccato in cella. + Simone La Penna, 32 anni, muore il 26 novembre 2009 nel carcere di Regina Coeli (Rm). La sua è una storia simile a quella di Stefano Cucchi: i tre camici bianchi, accusati di omicidio colposo, non avrebbero vigilato doverosamente sulle condizioni di salute di La Penna. E questo nonostante Simone fosse già allora affetto da una grave forma di anoressia contratta durante la permanenza in carcere: il 32enne viterbese morì all’interno del penitenziario della Capitale dopo aver perso più di quaranta chili. Stava scontando una pena di 2 anni e 4 mesi a seguito di una condanna per detenzione di stupefacenti. + Riccardo Boccaletti, 38 anni, muore il 24 luglio 2007 nel carcere di Velletri. Era detenuto in attesa di giudizio per reati legati alla droga. Dopo il suo ingresso in carcere ha cominciato ad accusare inappetenza, vomito, astenia e progressivo peggioramento anoressico, arrivando a perdere oltre 30 chili di peso in pochi mesi. Nonostante le sue scadenti e precarie condizioni di salute, nei suoi confronti non sono state approntati tutti quegli interventi specialistici che il grave e disperato quadro clinico avrebbe richiesto. A riprova del fatto che i pestaggi compiuti dagli agenti non sono eventi rarissimi (anche se, fortunatamente, è raro che provochino la morte dei detenuti che li subiscono) c’è il numero consistente di procedimenti penali dei quali danno notizia i giornali e che non è così difficile registrare. In alcuni casi, invece, sono stati proprio i giornali e il clamore mediatico a dare il colpo di grazia. Persone che in carcere non ci avevano ancora messo piede ma che, essendo accusate di reati legati alla droga, sono state sbattute in prima pagina dagli annoiati quotidiani locali. Le comunità iniziano a bisbigliare e le famiglie a soffrire, mentre i ragazzi, per la vergogna e per la consapevolezza di avere una vita rovinata da una stupidaggine, decidono di togliersi la vita. + Alberto Mercuriali, un ventottenne di Castrocaro Terme, morto suicida il 9 luglio del 2006. Allo bastato ricevere il foglio di notifica per la detenzione di una modica quantità di hashish per scrivere una laconica lettera di scuse e suicidarsi con il gas di scarico della propria auto. È successo ormai quasi 10 anni fa, i giornali lo avevano dipinto con un tossico criminale e lui non c’è stato, ha preferito togliersi la vita piuttosto che affrontare un’esistenza da “segnato”. + Giuseppe Ales, 23 anni, siciliano e incensurato. Nel marzo 2005 i carabinieri gli piombano in casa, trovano due vasetti con la marijuana appena germogliata e fanno scattare subito le manette. Il giorno dopo il giovane legge il suo nome sui giornali, assieme a quelli di altri ragazzi arrestati per qualche pasticca di ecstasy e di altri ancora che abitano in un’altra città al di là del Canale di Sicilia, che con lui hanno in comune solo l’età. L’impatto è micidiale. I genitori, anziani coltivatori, sono sconvolti: il figlio è un “drogato”. A Giuseppe crolla il mondo addosso. Prende una corda, la lega forte al soffitto e si lascia andare. + Cristian Brazzo, 21 anni, faceva l’operaio e viveva a Vigodarzere, un comune alle porte di Padova. Una sera d’estate come tante altre, gli amici, la macchina e tre grammi di hashish. Poi qualcosa va storto, un controllo di routine dei carabinieri, il sequestro del “fumo”, l’accompagnamento in caserma. Nulla di grave, nulla di irreparabile, ma la vergogna monta inesorabile e il timore di essere considerato un “drogato” da familiari e compagni di lavoro è un peso troppo grande per un ragazzo “normale” come lui. Per questo quella sera Cristian non torna a casa, nonostante telefoni alla mamma per avvertirla del ritardo con cui sarebbe rincasato. Poi il ritrovamento della macchina, quella stessa notte, nei pressi del fiume Brenta, la conferma meno di una settimana dopo, quando lo stesso fiume restituisce il suo giovane corpo privo di vita. + Bruno Bardazzi, 21 anni, di Prato, giovane operaio incensurato fermato e denunciato per presunto spaccio dai Carabinieri che gli trovano 1,7 grammi di hashish. Si è ucciso per la vergogna di una condanna a quattro mesi. L’assassinio di Bruno Bardazzi è cominciato nella primavera del 1992, quando fu costretto a subire la prima violenza da parte dei Carabinieri: la perquisizione della macchina, la scoperta di un pezzettino di fumo, la denuncia; è continuato nei tribunali; si è precisato con la pubblicazione della notizia della condanna; si è concluso con l’impiccagione. + Alessandro Maciocia, 25 anni viene trovato in possesso di 2,5 grammi di hashish, ma vicino a lui un minore con 250 gr. Viene arrestato e accusato di “concorso”. Non regge il peso e si suicida con il gas di scarico della propria auto. Lascia un biglietto: «non centro niente». + Marco Pettinato, 26 anni, incensurato, abitava a Isolabella, un piccolo comune a 30 Km da Torino. Lavorava al prosciuttificio Rosa ed è presidente della locale sezione della Pro Loco. Nel giugno 2002 su segnalazione di uno “strano via vai” proprio nei locali della Pro Loco, i Carabinieri intervengono ed arrestano Marco perché in possesso di una modica quantità di hashish. Arrestato e denunciato per detenzione ai fini di spaccio, viene condannato a 4 mesi di reclusione. In settembre, si impicca con la propria cintura ad una porta del locale campo di calcio. A trovarlo è la madre. Di tutte queste persone, la memoria è stata in qualche modo sporcata, offesa e negata da una magistratura e da un sistema Stato che pur di non ammettere i propri errori e punire i responsabili, prefersce il vilipendio di una persona impossibilitata a difendersi. Rimandare la discussione sulla legalizzazione deve essere considerata una mancanza di rispetto anche nei loro confronti. Text: Giovanna Dark
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