La Suprema Corte prova a rispondere: coltivare è ancora reato, però...

Exitable
24 Apr 2014

Ci avevano sperato in molti ma la notizia dello scorso ottobre sulla depenalizzazione della coltivazione di canapa si è ben presto rivelata una bufala. A confermare il fatto che attualmente la legislazione considera il growing un reato penale, è arrivata anche la Sesta Sezione Penale della Cassazione. Con la sentenza 1544 dello scorso 13 novembre, la Suprema Corte è ritornata sul tema della coltivazione, cercando di risolvere una volta per tutte l'annoso quesito sulla tollerabilità della coltivazione di piante di canapa.


Ci avevano sperato in molti ma la notizia dello scorso ottobre sulla depenalizzazione della coltivazione di canapa si è ben presto rivelata una bufala. A confermare il fatto che attualmente la legislazione considera il growing un reato penale, è arrivata anche la Sesta Sezione Penale della Cassazione. Con la sentenza 1544 dello scorso 13 novembre, la Suprema Corte è ritornata sul tema della coltivazione, cercando di risolvere una volta per tutte l'annoso quesito sulla tollerabilità della coltivazione di piante di canapa.

Ci avevano sperato in molti ma la notizia dello scorso ottobre sulla depenalizzazione della coltivazione di canapa si è ben presto rivelata una bufala. A confermare il fatto che attualmente la legislazione considera il growing un reato penale, è arrivata anche la Sesta Sezione Penale della Cassazione. Con la sentenza 1544 dello scorso 13 novembre, la Suprema Corte è ritornata sul tema della coltivazione, cercando di risolvere una volta per tutte l'annoso quesito sulla tollerabilità della coltivazione di piante di canapa.

La prima risposta che viene data nella sentenza 1544 è che coltivare cannabis, qualsiasi sia il fine ultimo, è una condotta penalmente perseguibile. Questo dice la legge Fini-Giovanardi che, essendo l'ultima, è la più aggiornata e quella di cui tenere conto ai fini ultimi della sentenza. C'è però una premessa sostanziale: sostiene, infatti, testualmente il Collegio di legittimità che “spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta, ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile”. 

In pratica, alla fine della fiera, è il giudice a decidere il pericolo che rappresenta la pianta: è lui che deve disporre ulteriori verifiche su, ad esempio, la percentuale di THC o il potenziale drogante di una piantina di White Widow. È lui che deve avere il buonsenso di rilevare che la coltivazione domestica di una pianta di cannabis non può rappresentare un danno al singolo o alla collettività. Quindi, come più volte ribadito su queste pagine, dipende molto da chi si ha la fortuna di avere davanti. 

Quello che però spesso accade nei tribunali nostrani è che il giudice, decisamente a priori, giudichi la pianta come dannosa solo perché pianta di cannabis. Nella sentenza viene detto (ahinoi!|) fin troppo chiaramente: “Ai fini decisori, la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza non ha rilevanza capitale”, ai giudici basta “la conformità della pianta al tipo botanico previsto ed alla sua attitudine a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente”. 

Nonostante la premessa fatta – ovvero quello di verificare “in concreto” l'offensività della condotta – i supremi giudici, dopo poche righe affermano che per condannare basta avere davanti una pianta di canapa. Può anche essere appena germogliata ma i giudici ci vedono solo un potenziale drogante, a loro basta “l'attitudine” della pianta. Ora, posto che una pianta appena germogliata può anche morire e non dare alcun frutto, la contraddizione della Cassazione è evidente. Ma non è tutto.

Una decina di righe dopo, la sentenza 1544 dice che per condannare un coltivatore è necessario che “l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile” sia concreta ed attuale.

Questo significa che può rientrare nel segmento di offensività solo una pianta cresciuta e fiorita, in grado di far derivare principio attivo. La Corte però consiglia di fare esattamente il contrario. L'indirizzo che la sentenza vuole dare privilegia infatti aspetti del tutto discutibili, come appunto la “conformità della pianta al tipo botanico previsto ed alla sua attitudine a produrre la sostanza stupefacente” e così facendo da il via libera alle interpretazioni più aprioristiche. Poco conta che queste abbiano generato e genereranno condanne ingiuste.

A legger bene quello che dicono i supremi giudici, è impossibile non vedere l'enorme contraddizione che pomposamente portano avanti. Come spiega l'avv. Carlo Alberto Zaina: «è paradossale, che proprio per evitare quella che viene definita a pagina 3 della sentenza una “evidente aprioristica negazione del criterio dell'offensività della pianta” , la Corte adotti un criterio speculare a quello che si intende eludere, basato sull'aprioristica e presuntiva affermazione del criterio dell'offensività della cannabis». Zaina 1 – Cassazione 0.

C'è poi un altro criterio che la Cassazione sottolinea nel suo indirizzo ma contraddice in termini poco dopo, e riguarda la destinazione d'uso della coltivazione. I supremi giudici individuano come guide per il giudizio di idoneità del bene a produrre la sostanza per il consumo, “la formulazione delle norme e la ratio della disciplina anche comunitaria”. Peccato che l'articolo 73 del famoso Testo Unico sulle Droghe lasci ampio spazio all'interpretazione quando parla di “coltivazione sanzionabile” e non dica assolutamente che basta che la pianta sia canapa. In più, la “ratio della disciplina comunitaria” con la decisione UE 2004/757 dice chiaramente che la sanzionabilità della coltivazione può avvenire solo una volta verificate specifiche condotte di spaccio. 

Stando a questo pronunciamento, per la precisione all'art. 2 comma 2, il fine del consumo personale di sostanze stupefacenti (nelle forme previste dalle legislazioni interne) assume un valore di causa di giustificazione rispetto ai comportamenti valutati come penalmente perseguibili. 

Spesso le ricolleghiamo solo a quelle che trattano di economia ma le decisioni europee hanno sempre rilevanza, in ogni Paese comunitario. Quelle dell'Europa non sono parole al vento e hanno  conseguenze destinate a produrre tutta una serie di effetti, in ordine al sistema sanzionatorio, anche nei sistemi del diritto interno italiano. Europa 1 – Cassazione 0

Arrivati alla fine della disamina dei punti salienti, quello che – in soldoni – dice la Cassazione è che nonostante ci si ponga come metro di giudizio tutta una serie di parametri (vedi oggettiva destinazione di spaccio piuttosto che la verifica accurata del potenziale drogante) alla fine basta avere davanti una pianta di cannabis per poter giudicare colpevole un coltivatore poi, ovviamente, sta al giudice incaricato decidere se la situazione che ha davanti configura davvero una condotta sanzionabile penalmente o meno. Spazio alle idee e all'immaginazione, insomma. Per gli imputati invece sarà sostanzialmente una roulette russa.

Come però suggerisce il sempre ottimo avvocato Zaina, anche basandoci sull'affermazione principe, ovvero la famosa “idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile”, sarebbe possibile imbastire una difesa assolutamente inattaccabile. Il principio di offensività presuppone infatti che non sussiste reato se non c'è un'effettiva lesione del bene giuridico che con la tal norma si intende tutelare. Nel caso delle leggi sulle droghe, il “bene giuridico” da tutelare sono ovviamente le persone e la loro salute, intendendo con ciò (in senso repressivo) anche il contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti in generale. Se questo è il presupposto, allora per giungere ad un inoppugnabile giudizio di colpevolezza bisognerebbe dimostrare che la tal coltivazione è realmente destinata allo spaccio, che la tal piantina è davvero in grado di far venire attacchi psicotici a chiunque fumi i suoi fiori e così via...

Quando si parla di principi, l'interpretazione arriva (purtroppo o per fortuna) sempre puntuale e così una parte di giuristi crede che, invece, il principio di offensività risieda nel semplice fatto di aver violato i parametri fissati dalla legge. E i giudici della Sesta Sezione Penale della Cassazione paiono decisamente propendere per questa interpretazione. C'è però una legge che dovrebbe essere superiore alle altre leggi – e a cui i supremi giudici si dovrebbero ispirare per scrivere ed emanare le loro sentenze –, si chiama Costituzione. All'art. 25, la nostra carta fondante dice che è bene propendere per l'indirizzo che mette l'offensività sullo stesso piano di quei requisiti che costituiscono l'essenza del reato, ovvero la condotta (nel nostro caso la coltivazione di cannabis), l'evento (le circostanze della coltivazione) e il nesso oggettivo tra questi due. Aderendo a questa impostazione, si dovrebbe dunque concludere che, nel momento in cui non c'è una vera e propria offesa al bene oggetto di protezione e tutela giuridica, il reato semplicemente non sussiste.

Ora, la detestatissima legge Fini-Giovanardi che tanta carne fresca ha consegnato alle carceri nostrane, è in attesa del vaglio di legittimità da parte della parte della Corte Costituzionale. E uno dei due motivi che l'hanno portata in sede di giudizio è proprio la sua attitudine ad eludere l'indirizzo indicato nella nostra carta fondante, istituendo una sproporzione evidente tra pena e reato per la detenzione di droghe leggere. L'altro riguarda una questione procedurale circa l’iter di approvazione della legge: l'allora governo Berlusconi avrebbe proceduto d’urgenza quando non ce n'erano minimamente i presupposti. La sentenza è prevista per il 14 febbraio e, nel caso in cui il consulto fosse negativo, gli scenari che si aprirebbero in Italia sono davvero dei più nebulosi. 

Nell'arena politica la questione sul come affrontare un'eventuale riforma della legge sulle droghe non pare essere prioritaria anche se, tra le file della sinistra, sembra possa aprirsi qualche spiraglio di mediazione. A seguito dell'appello di Giorgio Napolitano alle Camere, affinché si ponga rimedio al sovraffollamento disumano nelle carceri, il Partito Democratico – prima con il rottamatore Renzi e poi con il responsabile carceri Sandro Favi – ha indicato, tra le altre, la legge Fini-Giovanardi come una delle prime su cui intervenire. 

Secondo i dati del ministero dell’Interno, il 40% dei detenuti si trova in prigione per reati connessi alle droghe: nella metà dei casi si tratta di piccolo spaccio di hashish e marijuana. Secondo il rapporto presentato lo scorso giugno al Parlamento da Società della ragione, Forum droghe, Antigone e il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza sono solo 761 detenuti sul totale ad essere agli arresti per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Gli altri, oltre 20.000 stando ai dati, sono dei “pesci piccoli”, gente che il carcere – questo carcere, letale ed alienante, che nulla ha a che fare con il presupposto di re-inserimento nella società – davvero non lo merita.

Il giro di vite sui piccoli spacciatori – è abbastanza evidente – non ha ottenuto gli effetti sperati, anzi. L’uso di cannabis in Italia nel 2013 è tornato a crescere, secondo quanto rilevato dal Dipartimento Politiche Antidroga, e stando a quanto afferma uno studio Onu del 2012 siamo il primo paese occidentale per consumo di droghe leggere. In compenso le carceri stanno esplodendo. Un intervento sulla regolamentazione delle droghe potrebbe, secondo le simulazioni, avere un effetto paragonabile a quello di un indulto di 3 anni: i posti che si libererebbero in carcere sarebbero migliaia. Ma un governo di grande coalizione, in cui uno dei partiti di maggioranza ha fatto della legge Fini-Giovanardi una propria bandiera, è naturalmente destinato a non trovare un accordo sulla materia. E la storia recente lo conferma.

Lo scorso 4 dicembre un'altra legge molto discussa è stata cassata dalla Corte Costituzionale: la legge elettorale, altresì conosciuta ai più come “Porcellum”. I giudici hanno bocciato il Porcellum in tutti e due i punti sottoposti al vaglio di costituzionalità, ovvero il premio di maggioranza e la mancanza delle preferenze. Peccato lo avesse già fatto nel 2012 e, prima ancora, nel 2008 quando le erano stati sottoposti i quesiti per referendum abrogativi. I pochi che ancora hanno lo stomaco di seguire la vita politica italiana sapranno certamente che questo è il vaso di Pandora che non deve essere scoperchiato: ogni volta che si discute di leggere elettorale, poi qualcuno fa cadere il governo. 

All'insediamento di Monti e dei suoi tecnici s'era detto: “facciamo le cose urgenti, ivi compresa la legge elettorale e poi si torna al voto”. L'anno scorso siamo andati al voto con la legge vecchia. Con il nuovo governo delle larghe intese Letta-Alfano si è detto: “facciamo le cose urgenti, in primis la legge elettorale e poi si torna al voto”. E ora, nonostante la terza bocciatura della Corte Costituzionale, si dice di nuovo: “andiamo al voto e poi, la prima cosa che bisogna fare è la legge elettorale”. Ecco, diciamo che se questi sono i presupposti, allora non ci è dato molto da sperare. 

Cosa ne sarà della Fini-Giovanardi lo sapremo soltanto il mese prossimo. Nel frattempo è bene tenere a mente le conferme che ha voluto dare la Cassazione: ad oggi coltivare cannabis in Italia è ancora (purtroppo) un reato punibile con pene dai 6 ai 20 anni di reclusione.

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