Controllori controllati?

Soft Secrets
10 Apr 2017
Deputate a proteggerci, le forze dell'ordine hanno dimostrato in più casi di rappresentare a volte un pericolo per l'incolumità dei cittadini: lo vediamo puntualmente alle manifestazioni di piazza, lo ricordiamo con orrore quando si parla del G8 di Genova, lo riportano le cronache quando si fanno i nomi di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino o Stefano Cucchi. In questi contesti, quando si riesce a spezzare l'omertà della categoria, si finisce sempre per parlare di “mele marcie”, di individui con problematiche pregresse, di abuso di sostanze: il libro/film ACAB di Carlo Bonini è solo l'ultimo esempio di questo sforzo istituzionale per ricordare che le forze dell'ordine sono in realtà amiche del cittadino. Dietro ai caschi e ai manganelli, alle manette e alle divise ci sono pur sempre delle persone, dicono. Le persone infatti sono umane e in quanto tali peccano, sbagliano, trasgrediscono. Spesso abusano della loro posizione e, fortunatamente non così spesso, uccidono. Dal volo di Giuseppe Pinelli in poi, la storia contemporanea italiana ci ha insegnato che, quando “ci scappa il morto”, le forze dell'ordine sanno chiudersi a riccio e proteggere gli agenti incriminati, anche a costo di commettere ulteriori reati di fronte alla legge. Il caso di Stefano Cucchi è emblematico nella misura in cui, grazie alla tenacia della sorella Ilaria, la sua storia è diventata di dominio pubblico e ci ha dato un punto di vista inedito su quello che può succedere nelle caserme italiane. Assieme all'avvocato Fabio Anselmo, la famiglia Cucchi ha deciso di affrontare un lungo calvario giudiziario al fine di riabilitare la memoria di Stefano – bollato come anoressico, sieropositivo, tossicodipendente da Giovanardi e dai suoi cani da riporto – e abbattere il muro di omertà che fin troppo spesso lascia le divise impunite. [caption id="attachment_3924" align="alignnone" width="500"]Controllori controllati? Drug Test[/caption] La buona notizia è che lo scorso 17 gennaio il pool guidato dal procuratore di Roma Giovanni Musarò e dal sostituto Giuseppe Pignatone ha chiuso l’inchiesta bis sulla morte del geometra romano, avvenuta in un reparto protetto dell’ospedale Pertini, il 22 ottobre 2009. Un morte occorsa sette giorni dopo il suo arresto nel parco degli Acquedotti per il reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti: nello specifico 21 grammi di hashish e 2 grammi di cocaina. I carabinieri che lo arrestarono – e cioè Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco – sono ora imputati e di omicidio preterintenzionale e ritenuti responsabili del pestaggio e del conseguente decesso del giovane geometra. Ai tre tutori dell'ordine è contestata anche l’accusa di abuso di autorità, per aver sottoposto Cucchi “a misure di rigore non consentite dalla legge” con “l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza di Cucchi al momento del foto-segnalamento”. Assieme a loro, accusati di calunnia, il maresciallo Roberto Mandolini, allora comandante della stazione dei carabinieri Appia (quella che, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 aveva proceduto all'arresto) e i carabinieri Vincenzo Nicolardi e Francesco Tedesco. Per Mandolini e Tedesco, infine, anche il reato di falso verbale di arresto. I moventi dell'omicidio di Stefano sono stati definiti dai giudici stessi come “futili” e, se si pensa che molto spesso si attribuisce questo aggettivo a crimini commessi da persone psicologicamente instabili, non è forse così malizioso credere che gli agenti che hanno ammazzato di botte Stefano fossero sotto l'effetto di una sostanza come ad esempio la cocaina. Queste sono ovviamente solo mere supposizioni ma è un dato di fatto che anche tra le fila delle forze dell'ordine stesse il proibizionismo ha fallito. Le cronache hanno riportato di agenti intenti a vendere la droga precedentemente sequestrata, gli atti giudiziari concernenti le grandi manigestazioni, dal G8 alle tante No Tav, hanno spesso descritto celerini in evidente stato di alterazione e, per la pura legge dei numeri, è certo che anche una percentuale dell'arma contribuisce ad ingrossare la torta dei consumatori di sostanze italiani. Ma come si comportano le forze dell'ordine in termini di lotta alla droga? Come vengono controllati i controllori? Anche in questo caso ci sono due pesi e due misure o l'Arma vuole davvero debellare il consumo e l'abuso di sostanze da parte dei suoi componenti? La relazione annuale consegnata dal Dipartimento delle Politiche Antidroga al Parlamento ci da modo di dare uno sguardo alle procedure interne adottate dai tutori dell'ordine in termini di contrasto alla droga, carpendo un po' meglio l'approccio che lo Stato tiene nei confronti dei suoi difensori. Per i pochi che anora non lo sapesero, in ambito Difesa, la materia di contrasto all'uso e abuso di sostanze è disciplinata in modo diverso rispetto al mondo civile. I capi a cui i militari fanno riferimento sono principalmente tre e sono il “Codice dell’Ordinamento Militare” (D.lgs. 66/2010), il Regolamento per l’applicazione delle procedure per gli accertamenti sanitari di assenza della tossicodipendenza o di assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope in militari addetti a mansioni che comportano particolari rischi per la sicurezza, l’incolumità e la salute di terzi presso il Ministero della Difesa (DIFESAN-2010), ed infine le Direttive delle singole caserme che disciplinano le peculiari attività di prevenzione, accertamento delle tossicodipendenze e dei comportamenti d’abuso. L’orientamento delle Forze Armate italiane si dice “costantemente rivolto al massimo contrasto nei confronti dell’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope ed all’abuso di alcol da parte del personale dipendente, proprio in virtù della prioritaria esigenza di dover assicurare, in qualsiasi momento, personale completamente integro sul piano psico-fisico e, conseguentemente, idoneo ad assolvere tutti gli obblighi di servizio in piena sicurezza per sé e per la collettività”. In ragione di quanto sopra, ai militari, ai poliziotti e ai carabinieri è richiesto un elevato senso di responsabilità e di osservanza delle regole, e le assunzioni sia saltuarie sia abitudinarie di sostanze stupefacenti e psicotrope possono essere in qualche modo compatibili con le condotte che minacciano l’integrità psico-fisica dell’individuo. Figuriamoci se ci scappa il morto. In quest'ottica sono stati individuati specifici protocolli e misure di sicurezza a tutela dell’incolumità e, in particolare, finalizzate primariamente alla prevenzione di incidenti correlati allo svolgimento di mansioni e/o attività lavorative a rischio. Per attività a rischio possiamo intendere gli scontri di piazza, piuttosto che la gestione di un fermo complicato o operazioni che in generali implichino il potenziale uso di armi da fuoco. “Secondo tale orientamento – spiega la relazione - è diventato prevalente un indirizzo di cautela che è alla base della sospensione lavorativa preventiva dei sospetti/presunti assuntori”. Non si licenzia dunque ma semplicemente si sospende. I testi a cui si sottopongono gli agenti sono oltretutto relativamente più blandi rispetto a quelli cui sono costretti i normali cittadini una volta beccati in flagrante e denotano in primis un garantismo che non è concesso ai civili. Le “misure di sicurezza” menzionate dalla relazione del DPA, altro non sono infatti che un semplice esame delle urine fatto in modo casuale una volta ogni morte di papa: ovvero “nella misura del campione mensile del 5% della forza effettiva dell’Ente di appartenenza”. Nel caso in cui, a seguito del test, vengano accertati eventuali stati di tossicofilia (livelli bassi) o di tossicodipendenza (livelli alti), il personale militare sospetto non viene immediatamente sospeso dal servizio ma viene sottoposto ad ulteriori e più accurati controlli di laboratorio e valutazioni cliniche psicopatologiche a cura dei Servizi sanitari, dei Consultori Psicologici e Servizi di Psicologia. Insomma, per l'Arma il test dei cataboliti non basta e prima di allontanare un agente dal posto di lavoro, dalle sue mansioni e dall'arma di ordinanza, lo si sottopone ad ulteriori visite medico-psicologiche e, solo in un secondo momento, a nuovi esami complementari tossicologici di laboratorio. Il militare che, dopo questi passaggi, risulti ancora positivo ai tests tossicologico-analitici di screening viene posto in posizione di inidoneità temporanea al servizio da parte del Dirigente del Servizio Sanitario, in attesa del risultato dell'ulteriore test di conferma. Quest’ultimo, viene effettuato a cura del Servizio medico militare competente. Per chi se lo chiedesse: si, i test antidroga gli agenti se li fanno in casa, con tutte le collusioni che questo comporta. In caso di positività anche all'ulteriore test di conferma (e, a questo punto, anche allo stereotipo che vuole i militari tipicamente mancare di acume), l'agente viene inviato dal Dirigente del Servizio Sanitario al Servizio medico militare competente per territorio per l’approfondimento diagnostico ed eventuali provvedimenti medico-legali previsti dalle disposizioni vigenti. Esiste però una differenza sostanziale tra il personale in servizio permanente effettivo e quello in ferma prefissata, ovvero tra i precari della difesa. I primi, se risultati positivi ai test, vengono avviati ad attività di sostegno e rieducazione sanitaria presso i consultori psicologici (dell'Arma of course) e sottoposti ad accurata e approfondita valutazione clinica e psicodiagnostica, sempre da professionisti interni. Per il personale ancora non transitato in servizio permanente, invece, anche l’assunzione occasionale di sostanze stupefacenti e psicotrope comporta il proscioglimento dalla vita militare: per loro basta il primo test. Quello offerto dal DPA è quindi un quadro ben diverso da quello che interessa i civili. I tutori dell'ordine, nonostante siano chiamati ad un rigore e ad un disciplina ben maggiore dei cittadini comuni o di altre categorie di lavoratori da cui dipende l'incolumità di terzi, godono di garanzie che li pongono in automatica deroga rispetto alla legge sulla droga vigente. Considerato il loro stato di servizio, 3 test clinici e qualche seduta dallo psicologo, non si possono certo chiamare azioni di deterrenza, nè si può chiamare screening un campione che vuole coprire solo il 5% dell'organico effettivo. Anche in tema di droga, dunque, i militari tendono palesemente all'autotutela e si chiudono a testuggine sull'elemento imputato. C'era forse da stupirsi? di Giovanna Dark
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