Proibizionismo fa rima con razzismo. Gli Stati Uniti di fronte ai loro fantasmi

12 Jun 2020

Proibizionismo e razzismo, un binomio catastrofico per l'umanità. La società contemporanea sta vivendo una fase di sonno della ragione con il proprio inizio che è da ricercarsi proprio nell'epoca del proibizionismo della cannabis negli Stati Uniti d'America. Lo speciale a cura di Riccardo Giorgio Frega e Barbara Bonvicini


 

Proibizionismo e razzismo negli Stati Uniti
«Ci sono 100mila fumatori di marijuana in totale negli Stati Uniti e la maggior parte di loro sono negri, ispanici, filippini e musicisti. (…) Questa marijuana fa sì che le donne bianche cerchino rapporti sessuali con i negri, i musicisti e altri. (…) Gli spinelli fanno credere ai negri di essere come i bianchi».

A rilasciare pubblicamente queste dichiarazioni fu Harry Jacob Anslinger, primo direttore dell’allora neonato Federal Bureau of Narcotics ed in carica dal 1931 al 1962.
A lui dobbiamo il Marijuana Tax Act del 1937, che proibì l’uso e la coltivazione di canapa, anche a scopo terapeutico, in tutti gli Stati Uniti, il Boggs Act del 1951, che irrigidì enormemente le pene per il possesso di cannabis, più decine di altri provvedimenti violentemente repressivi sul consumo, la produzione e la sperimentazione medica delle sostanze stupefacenti.
Insomma, il padre putativo di ogni politica proibizionista sulle droghe al mondo.
Eppure le sue sconvolgenti dichiarazioni non ci appaiono solo come espressione dei tempi in cui vennero pronunciate, ma ci aiutano a capire la mentalità di Anslinger e a contestualizzare meglio il reale obiettivo della politica sui narcotici da lui promossa.

Mentre il mondo intero si indigna per l’orribile morte di George Floyd, inginocchiandosi sotto l’egida dell’hashtag #blacklivesmatter, in molti ignorano che il proibizionismo sulle droghe è stato concepito come arma per colpire selettivamente determinate comunità etniche al fine di disgregarle, emarginarle e incarcerarle. Nell’episodio numero 18, “Le armi dell’odio”, del podcast antiproibizionista Stupefatti - di cui siamo voci e autori - dimostriamo come la cosiddetta war on drugs sia stata (e continui ad essere) in realtà un espediente del suprematismo bianco.

 

Per capire l’origine di questa storia occorre tornare al 1865, anno in cui gli Stati nordisti vinsero la Guerra di Secessione americana mettendo per sempre fine alla schiavitù negli Stati Uniti. Ciò che è meno noto è quanto quella guerra lasciò il paese socialmente ed economicamente devastato. Gli Stati del Sud, in particolare, furono letteralmente rasi al suolo e, come se non bastasse, le loro economie, fondate sul lavoro degli schiavi, irreparabilmente compromesse.

Il nuovo Stato unificato, pertanto, si trovò presto a dover sciogliere un dilemma pressante: dove trovare una risorsa inesauribile di manodopera gratuita per ricostruire il paese?

La risposta al quesito apparve subito chiara: nei detenuti. Nel medesimo anno venne approvato il tredicesimo emendamento alla Costituzione americana che, molto “convenientemente”, recita: «né la schiavitù né il servizio non volontario - eccetto che come punizione per un crimine (…) - potranno esistere negli Stati Uniti».
I nuovi schiavi d’America diventarono quindi, costituzionalmente, i detenuti.

Negli anni immediatamente seguenti al 1865, prese quindi avvio quel fenomeno - che perdura ancor oggi - chiamato iper-incarcerazione. Centinaia di migliaia di cittadini, appartenenti alle fasce della popolazione più deboli ed emarginate, vennero arrestati per motivi futili e condannati ai lavori forzati. Le prigioni diventarono fabbriche estremamente redditizie e l’unica preoccupazione dei legislatori fu quella di tenerle costantemente piene.

È questo il contesto nel quale si svilupparono le leggi repressive nei confronti della cannabis, una sostanza largamente usata dalla popolazione afroamericana, ispanica e dai cosiddetti alternativi, tanto invisi alle classi dominanti borghesi e conservatrici.
Ma i Governi a stelle e strisce capirono ben presto anche un’altra cosa: il proibizionismo non forniva soltanto una quantità inesauribile di forza lavoro gratuita, ma consentiva anche di colpire, con precisione chirurgica, razze e classi sociali considerate pericolose e destabilizzanti.

 

Quando Richard Nixon diventò Presidente, sul finire degli anni sessanta, fu per lui facile trovare una soluzione al problema degli hippies e soprattutto a quello dei grandi movimenti per i diritti degli afroamericani e delle minoranze etniche, guidati da leader del calibro di Martin Luther King e Malcolm X, che stavano raggiungendo sempre più consensi nel Paese. Bastò dare un nuovo giro di vite alla guerra alla droga concentrando la repressione su cannabis, crack ed eroina (ossia, ancora una volta, le droghe più in voga tra le minoranze etniche e le classi più povere), a differenza, ad esempio, della cocaina, droga “ricca e bianca” per eccellenza e il cui consumo era punito in maniera molto meno severa.

Proibizionismo e razzismo dagli USA al resto del mondo

Fu, peraltro, questo il modello di cui l’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi, reduce da un viaggio in USA, si innamorò, decidendo di importarlo in Italia nel 1989. Un sistema di apparente “tolleranza zero”, concepito per punire la massa dei consumatori e non il grande narcotraffico.
Ed infatti i risultati nel nostro paese furono e restano tutt’oggi i medesimi.

Oggi infatti, a distanza di trent’anni, le nostre carceri sono al collasso, il 40% dei detenuti sono stranieri e più di un terzo sono reclusi in violazione del Testo Unico sugli stupefacenti. Anche le nostre leggi proibizioniste favoriscono il narcotraffico creando sacche di criminalità che penalizzano gli stranieri, soprattutto quelli irregolari, e le fasce più deboli ed indifese della nostra popolazione. Il binomio tra proibizionismo e razzismo è evidente anche in Italia ed è stato perfettamente esemplificato dal già Ministro dell’Interno Salvini quando, nel cuore della notte e circondato dai risolini compiaciuti dei lacchè della stampa generalista, citofonò al domicilio di un presunto spacciatore di hashish, di origine tunisina, per chiedere: “Scusi, ma lei spaccia?”.

La danza schiavista tra proibizionismo e razzismo è molto più complessa ed elaborata di quanto abbiamo provato a raccontare in questo articolo. Chiunque voglia approfondire ulteriormente può ascoltare gratuitamente l’episodio numero 18 del podcast antiproibizionista Stupefatti, disponibile su Spotify, iTunes, Apple e Google podcast e in versione video anche su YouTube.

https://www.youtube.com/watch?v=YqIhfl1Cpz8&feature=youtu.be&fbclid=IwAR1ZXdXhEsQXdE9Kh_VOVlsceTOjwdyeAVwsRuPXkF7U1skl1-p4xQ6-Xb8

 

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